Recensione di We Are Who We Are

We Are Who We Are è una fotografia di quel momento in cui tutto è ancora possibile

We Are Who We Are, la prima serie tv diretta da Luca Guadagnino, prodotta e distribuita da HBO, si sviluppa su molteplici livelli e lo fa senza perdere il dono della naturalezza, portando una rappresentazione di cui c’era bisogno. 

Al suo esordio televisivo Luca Guadagnino, insieme agli sceneggiatori Paolo Giordano e Francesca Manieri, ripropone quelle cifre stilistiche che abbiamo imparato a riconoscere nella sua trilogia del desiderio (A Bigger Splash, Io sono l’amore e Chiamami col tuo nome): tra sessualità fluida ed incontri tra culture e lingue diverse. Questa volta però i protagonisti appartengono ad una classe sociale differente: non si tratta più di aristocratici intellettuali ma di soldati e colonnelli. Il linguaggio seriale viene quindi scardinato e ripiegato alle scelte registiche di Guadagnino, dirigendosi così verso un’ibridazione tra cinema e televisione. 

Fraser (interpretato da Jack Dylan Grazer) si è appena trasferito in un campo base nella provincia Veneta, dopo che una delle sue madri, Sarah (l’attrice e modella Chloe Sevigny), è stata promossa a colonnello e capo della base militare. Si tratta un non-luogo che gioca un importante ruolo nella narrazione, perché accentua il contrasto tra le tematiche affrontate e un contesto che molto spesso tende a reprimerle. Al suo interno tutto sembra essere costruito in modo da dare l’impressione alle famiglie di non essersi mai veramente allontanate dall’America. Possono ritrovare molti elementi familiari anche a migliaia di chilometri di distanza da casa propria: i supermercati per esempio vengono realizzati in serie e la merce è posizionata sempre sugli stessi scaffali. Questa illusione però si perde una volta usciti dalla base, infatti i luoghi della provincia e i suoi abitanti portano i protagonisti in una dimensione del tutto diversa, dove per le strade si possono sentire risuonare in lontananza le note di A Lei di Anna Oxa. Questa differenza non si nota invece tra i coetanei italiani che, dimostrandosi altrettanto liberi da preconcetti, entrano facilmente nella cerchia di amicizia del gruppo protagonista. 

Avviene quasi subito l’incontro con Caitlin (l’esordiente Jordan Kristine Seamón) e Fraser riconosce in lei un’insofferenza simile, data nel suo caso dal vivere un luogo, una relazione e un corpo che non sente totalmente suoi. I primi due episodi sono dedicati a presentarci la visione del mondo dei due protagonisti, facendo uso rispettivamente del punto di vista di entrambi. Qui si intrecciano i due piani principali della narrazione: la ricerca della propria identità, che porta spesso ad uno scontro con le generazioni precedenti – le liti tra Fraser e Sarah sono spesso violente e ricordano in alcuni momenti Mommy di Xavier Dolan – e la possibilità di vivere una sessualità fluida e libera dalle costrizioni del genere – particolarmente rilevante da questo punto di vista il quarto episodio, che si avvicina allo stile di Gaspar Noé. Il mondo degli adulti non è privo di complicazioni, anzi sembra portarne ulteriori, ricadendo di conseguenza sui figli adolescenti. L’arrivo in un ambiente in cui regnano rigore e disciplina, accentua il senso di esclusione di Fraser. Questo viene reso evidente anche attraverso l’uso impeccabile dei costumi, curati da Giulia Piersanti: infatti indossa capi vintage di alta moda, da Comme des Garçons a Raf Simon, che faticano a convivere con i toni neutri delle uniformi. Disprezza il fast fashion e cerca di comprare qualcosa che possa durare nel tempo,  come la poesia.

Nonostante i numerosi parallelismi visivi tra WAWWA e CMBYN (in scene come quella del rasoio o della stretta di mano) volutamente disseminati all’interno della serie, ci si trova in due momenti storici profondamente diversi. Con We Are Who Are si è deciso di raccontare il presente, in particolare il 2016, anno delle presidenziali che vedrà l’elezione di Donald Trump. La campagna elettorale è seguita con attenzione tra i soldati, ed ancora una volta la situazione politica non è ridotta a semplice sottofondo, ma assume un ruolo importante anche per definire i personaggi stessi. Richard (interpretato da Scott Mescudi, in arte Kid Kudi), soldato dell’esercito e  padre della protagonista, ne è un esempio, in quanto afroamericano che però non esita a sfoggiare con orgoglio i gadget della campagna elettorale di Trump e che diffida da Sarah in quanto donna e per il suo orientamento sessuale. 

Come tutte le componenti della serie tv, niente si limita a funzionare da semplice cornice. Accade lo stesso anche per la colonna sonora. Questo aspetto è sempre stato particolarmente rilevante nei progetti del regista, che ha coltivato la passione per le colonne sonore da quando, nel 1987, ha visto al cinema L’ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci. La musica quindi si rivela essere un’altra grande protagonista e gioca un ruolo fondamentale grazie alla sua estrema eterogeneità. Per accentuare quella assolutezza priva di sfumature che caratterizza le sensazioni che si provano durante l’adolescenza, questa volta si è affidato a Blood Orange (Devonté Hynes): “Dev era l’unico compositore con cui volevo creare musica. Mi è piaciuta la sua ecletticità. E’ come se mi avesse visto dentro”

Ci sono quindi brani originali diegetici firmati da quest’ultimo – che appare anche live nell’ottava puntata durante un suo concerto al Locomotiv di Bologna –  la cui storia personale si intreccia altrettanto bene con le tematiche affrontate all’interno della serie. Invece i brani di accompagnamento, supervisionati anch’essi da Guadagnino, spaziano dai CCCP di Emilia Paranoica ai grandi compositori classici del ventesimo secolo come John Adams, da Cosmo – che aveva già collaborato con il regista per il  cortometraggio presentato a Venezia lo scorso settembre “Fiori, Fiori, Fiori! – ai Radiohead. Spesso funzionano per contrasto e come distrazione per i protagonisti, che alzano al massimo il volume delle cuffie. 

La struttura della serie rende difficile parlarne perché prosegue senza una trama definita. Preferisce invece offrire allo spettatore un punto neutro di osservazione sui comportamenti dei protagonisti, evitando quindi di ricorrere a psicologismi che avrebbero aumentato il rischio di cadere in facili cliché, come dichiarato dallo stesso regista. Luca Guadagnino accompagna lo spettatore nelle esperienze dei due protagonisti, abbandonando qualsiasi tipo di giudizio e invitandoci a fare altrettanto. Gli eventi sono presentati per ciò che sono e, spogliati da ogni logica di engagement, scorrono con naturalezza davanti agli occhi di chi assiste. L’aspetto migliore della serie è proprio questa rinuncia nel cercare di capire le scelte dei protagonisti, perché in fondo non le capiscono veramente neanche loro, e non abbiamo altra scelta che seguirli nei loro percorsi senza pretese. 

Silvia Alberti

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