Strategia del ragno di Bertolucci

Athos Magnani (interpretato dal compianto Giulio Brogi) arriva con un treno alla stazione di Tara, il luogo dove è vissuto suo padre, un eroe locale assassinato dai fascisti cui sono dedicate strade e monumenti. Il protagonista è esattamente identico al padre oltre ad avere lo stesso nome. In uno scenario onirico in cui il tempo sembra essersi fermato, il protagonista vuole indagare e scoprire la verità sulla morte del padre. A Tara incontra Draifa (Alida Valli), la sua amante del tempo, e i suoi tre amici Costa, Rasori e Gaibazzi, che assieme ad Athos Magnani padre pianificarono un attentato al Duce in persona. Qualcuno tradì la cospirazione antifascista e il padre di Athos venne assassinato al posto di Mussolini da mano ignota durante uno spettacolo di opera lirica. Ciò che Athos figlio scoprirà durante la sua indagine rimetterà in discussione l’idea che si era fatto del padre. Alla fine della visione sono diversi gli interrogativi che ci poniamo: il protagonista è il figlio di Athos o è Athos stesso che non è mai partito da Tara? Ciò che vediamo è reale o è tutto un sogno?

Strategia del ragno è il film della svolta di Bertolucci. Ci arriva dopo l’esordio rappresentato dal pasoliniano La commare secca (1962), prodotto evidentemente influenzato dalla poetica del poeta friulano – amico della famiglia Bertolucci – che aveva esordito dietro la macchina da presa due anni addietro con Accattone. Ci arriva dopo il primo ritorno a Parma del suo secondo lungometraggio Prima della rivoluzione (1964), in cui si distacca dalle forme e dai temi dell’esordio per avvicinarsi alla sensibilità della Nouvelle Vague francese e in particolare alle forme di racconto sperimentate da Jean-Luc Godard. In questo film peraltro raccontò per la prima volta un confronto/scontro generazionale tra padre e figlio, l’impossibilità di rompere definitivamente i legami con la classe sociale di appartenenza e con le proprie origini, gli albori del Sessantotto. E ancor più sessantottino è probabilmente il suo film successivo, Partner (1968). Ma tutto sommato gli anni Sessanta sono un decennio di difficoltà produttive per Bernardo e sono un’epoca di film-monologo, con una certa dose di autoreferenzialità. Insieme al coevo Il conformista (1970), Strategia del ragno sancisce l’approdo ad un cinema più maturo, aperto a un dialogo più sincero con il pubblico. Se il precedente Partner è un film aggressivo e a tratti indecifrabile, Strategia del ragno è scorrevole narrativamente, è dolce e avvolgente nella visione. Con questi due film Bertolucci inaugura un decennio di produzioni particolarmente felici sia qualitativamente che per quanto riguarda il riscontro del pubblico, consacrando così la sua fama a livello internazionale (sarà difatti l’epoca del film scandalo Ultimo tango a Parigi del 1972 e del kolossal contadino Novecento del 1976).

Il film in questione fu prodotto dalla RAI ed è proprio il confronto con il vasto pubblico del teleschermo che porta Bertolucci a riflettere sul rapporto timoroso e conflittuale che aveva intrattenuto col pubblico durante i suoi primi film. L’opera fu dedicata dall’autore alla Regione Emilia-Romagna, nata istituzionalmente nel 1969.

Tratto da un racconto di Borges del 1944, Tema del traditore e dell’eroe, il film è costituito da due livelli di lettura che si intersecano: uno storico e politico e uno più psicanalitico. Bertolucci si confronta apertamente per la prima volta con il tema del fascismo che riprenderà anche nelle opere successive, con la conseguente commistione tra macrostoria e microstoria, e si serve del genere giallo per addentrarsi nuovamente nel tema dei complessi rapporti generazionali tra padri e figli. Se Athos, il protagonista di Strategia del ragno, è obbligato a riflettere dolorosamente sulla natura del padre, è anche vero che il suo tormento interiore è l’espressione di un complesso di Edipo che lo attanaglia da tempo.

La storia è ambientata nella cittadina immaginaria di Tara (dal nome della proprietà della famiglia O’Hara in Via col vento), situata in un luogo qualunque della Bassa emiliano-lombarda (in realtà Sabbioneta, provincia di Mantova). Tara in questo film è come un magico teatro di posa e rappresenta il più importante elemento di fascinazione del film, grazie anche alla fotografia di Vittorio Storaro, alla prima collaborazione con Bertolucci con il quale stringerà un sodalizio artistico memorabile per il cinema italiano. Il mondo qui rappresentato da Bertolucci è come un palcoscenico in cui i personaggi si muovono recitando un copione mentre il protagonista è impossibilitato a prendere iniziative. Più volte cercherà di allontanarsi da Tara ma verrà trattenuto come fosse un personaggio di Aspettando Godot. In questa cittadina si è fermato il tempo perché è semplicemente la città dell’inconscio, dove il tempo non scorre. Anche la regia stessa di Bertolucci si caratterizza per l’uso di prolungati piani sequenza e di carrelli laterali e circolari intorno ad Athos che suggeriscono l’idea di un progressivo ingabbiamento del personaggio.

L’impressione di irrealtà è peraltro suggerita anche dai numerosi flashback in cui vediamo i personaggi fissati in una eterna vecchiaia, sempre identici a loro stessi.

In Strategia del ragno dunque torna il tema dell’eredità storica e dello scontro generazionale ma anche il racconto dell’impossibilità di fuga dalla provincia, dei rituali quotidiani che fissano lo scorrere del tempo in un eterno presente. Il film è un’immersione totale nei ricordi di Bertolucci della campagna emiliana con le sue luci e i suoi profumi, i suoi rumori e la sua gente (le comparse sono tutte persone che Bertolucci ha conosciuto e ammirato da bambino). Ma Tara è una rappresentazione irreale e trasfigurata della Bassa, filtrata dal sogno e dal ricordo, da suggestioni letterarie e pittoriche: le luci sono quelle surreali di Magritte (in particolare nelle scene notturne), la desolata piazza di Tara sembra quella dipinta da De Chirico mentre Antonio Ligabue, che viene citato testualmente durante i titoli di testa, è richiamato dall’uso dei colori caldi e saturi.

Nel film vi è un’insistita presenza di elementi culturali (come il melodramma verdiano), folcloristici, dialetti, usi e costumi che vivono nella memoria del regista e che sono qui raccontati con affezionata commozione. Tra i luoghi si annoverano le balere, le osterie, i campi di grano, il teatro e un cinema all’aperto, luoghi ricorrenti nella filmografia “emiliana” di Bertolucci.

È il mito del cinema che agisce sulla memoria di Bertolucci trasfigurando i luoghi della sua infanzia: le campagne emiliane per lui diventano come la Monument Valley per Ford, così come Parma era la Parigi di Godard ai tempi di Prima della rivoluzione.

Un film che generalmente non viene menzionato tra i fondamentali dell’autore in quanto a notorietà ma che certamente ricopre un ruolo primario nella sua filmografia ed è essenziale per comprenderne appieno la poetica.

Federico Cristalli 

 

torna ai progetti