A Venezia nella sezione Orizzonti si fa notare Cenzorka (titolo originale di 107 madri, del regista slovacco Peter Kerekes. È realizzato a partire dai vissuti di alcune detenute-madri in un carcere di Odessa che il regista ha seguito durante il periodo pre-parto e i primi anni di maternità dal 2015 al 2020. Girato con stile asettico, composto, con una recitazione misurata e priva di sentimentalismi, risulta comunque angosciante. Si potrebbe dire che la macchina da presa funzioni come un Panopticon, il sistema carcerario ideale progettato nel ‘700 per osservare contemporaneamente tutti i detenuti nelle loro celle, senza prediligere o trascurare nessuno. Anche nel film di Kerekes, a metà tra finzione e documentario, le detenute sono oggetto di uno sguardo razionale e indistinto, tanto che fatichiamo a identificare subito la protagonista (l’attrice Maryna Klimova). Il potere, e con esso la violenza, si dispiegano proprio attraverso questo modo di guardare, pervasivo e spersonalizzante che mina il rapporto viscerale madre-figlio provocando sofferenza in entrambi. Riproducendo questa dinamica, Kerekes fa arrivare da fuori campo la voce dell’autorità che interroga, la legge si esprime attraverso parole senza volto pensate lontano che agiscono sui corpi delle detenute come un destino. Allo spettatore il compito di assumere uno sguardo differente, ripensando il fuori campo, dissociandosi da questo modo identico di inquadrare le diverse detenute che trasforma il loro vissuto in un elenco. Bello il finale girato sulla scalinata di Odessa, la stessa da cui Ejzenstejn aveva fatto precipitare la famosa carrozzina. Come ne La corazzata Potëmkin, anche qui si parla della violenza dello Stato, colpevole di lasciare precipitare i bambini verso un destino pericoloso.
Angela Norelli