Recruiting for Jihad

Il giornalista Adel Khan Farooq e l’islamista Ubaydullah Hussain sono entrambi musulmani. Di origini pakistane, tutti e due sono nati e cresciuti a Oslo. Ma mentre il primo si sente fortunato a vivere in Norvegia, in ossequio ai suoi principi democratici, l’altro vorrebbe portare la rivoluzione
nel Paese per poterlo trasformare in un nuovo Stato Islamico.
Parte dalla contrapposizione fra i suoi due protagonisti “Recruting for Jihad”, film documentario
diretto dallo stesso Khan Farooq assieme al regista professionista norvegese Ulrik Imtiaz Rolfsen e
incentrato sulla figura controversa e contradditoria di Ubaydullah.
L’interesse comune per il fondamentalismo religioso unitamente ad una cieca fiducia nelle libertà
di stampa e d’informazione ha spinto i due registi a seguire da vicino per più di un anno (dal gennaio 2014 al novembre 2015) le attività della Comunità del profeta, organizzazione di base a Oslo avente come scopo la glorificazione di Allah e adottante un’interpretazione ortodossa dell’Islam, e del suo portavoce Ubaydullah, che ha concesso di essere ripreso durante la sua vita quotidiana a patto che tutti i contatti con la sua comunità di fedeli passassero sempre attraverso di lui.
Cresciuto (quasi) alla maniera occidentale tra le recite delle scuole elementari, gli allenamenti di
calcio e le letture individuali del Corano, Ubaydullah neanche trentenne colpisce subito per la sua
capacità di persuasione e per il forte carisma, le stesse doti per mezzo delle quali convince alcuni
adepti della comunità a partire per la Siria e a perdere la vita in nome di Allah combattendo tra le
fila delle formazioni jihadiste. Difatti, se inizialmente Ubaydullah racconta sé stesso e la propria
comunità alle telecamere perché fiducioso “di riuscire a dare l’immagine corretta dell’Islam” senza
tuttavia rivelare chiaramente le sue idee più estremiste (se pur lasciandole intuire), con l’incedere
della narrazione e il verificarsi in concomitanza di attentati terroristici di matrice islamica in Europa
(dall’attentato alla sede di Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015 fino agli attentati di Parigi del 13
novembre 2015) la sua adesione ai principi della jihad, intesa come guerra santa contro gli infedeli,
appare sempre più evidente, così come la sua attività di reclutatore di soldati per il Califfato
islamico che gli è valsa una condanna a 9 anni di prigione nel 2017.
Il documentario, che è uscito ad aprile 2017, ha rischiato di non venire mai alla luce dopo che nel
2015 i servizi segreti norvegesi, sulle tracce di Ubaydullah e della sua attività di reclutamento,
avevano confiscato tutto il materiale girato dai due registi, prima che una storica sentenza del tribunale di Oslo nello stesso anno decidesse per la revoca della confisca in virtù della libertà
d’informazione e della tutela delle fonti.
Da “Sono musulmano, non sono norvegese” a “Sono nato e cresciuto qui, faccio parte di questa
società”, da “Tutti hanno il diritto di professare il loro credo” fino a “L’Islam è l’unica vera e
religione e non potrà mai essere superata”, e ancora da “Vorrei che la legge islamica si imponesse
ovunque nel mondo” a “Non voglio imporre la mia ideologia a nessuno”: sono tante le contraddizioni raccontate dalla telecamera e proferite da Ubaydullah nel corso del documentario, fino all’ultimissima pronunciata nel finale del film: “Io vorrei la pace nel mondo, ma non si potrà
averla fino a quando lo stato islamico non prevarrà”. Insomma, l’immagine di Ubaydullah restituita
dal film è quella di un uomo lucido e folle allo stesso tempo, sempre convinto e mai dubitante della giustezza dei principi in cui crede e angosciosamente tenuto a parlare e a ragionare (o, per
meglio dire, sragionare) nel rispetto di quelli che lui ritiene essere gli insegnamenti del Corano e
del Profeta Maometto.
Il film racconta anche della conversione di due giovani ragazzi norvegesi a questo Islam così
terribilmente distorto professato da Ubaydullah e del loro viaggio verso la Siria per combattere la
jihad: “Volevo scoprire il senso della vita”, questa e poche altre vaghe spiegazioni alla base della
loro scelta, che, purtroppo per entrambi, non porterà nulla di buono, con il primo che perde la vita
in Medio Oriente durante uno scontro a fuoco, e il secondo che viene arrestato in aeroporto dalle
autorità svedesi poco prima di partire e successivamente condannato a 1 anno e dieci mesi di prigione.

Raniero Bergamaschi

torna ai progetti