The Substance ha diviso il pubblico un po’ come ha diviso la protagonista, interpretata da una scintillante Demi Moore. Tra chi ha acclamato il capolavoro, chi invece l’ha tacciato di banalità, e infine chi ha esecrato il body-horror del finale sostenendo che abbia rovinato tutto, in ogni caso molti hanno ragionato per estremi. C’è, però, una certa ironia in tutto ciò.
Il film mette in scena un individuo incapace di trovare un equilibrio. Una donna che, lasciata a casa, da sola con se stessa, si ritrova ad esplorare di nuovo le stanze della sua mente. E così ne scopre una nuova, buia, che è sempre stata lì, anche se la porta d’ingresso era ancora tutta da costruire.
Calate in una scenografia che strizza l’occhio ai cinefili dell’horror seduti in sala, Elisabeth e Sue devono ricordarsi di essere una, come una è la loro casa e una è la loro mente. La priorità, a questo punto, è rispettare l’equilibrio.
Ma il jet-set non perdona: anzi, umilia. Seduce, con lo specchietto per le allodole della fama e della popolarità. E intanto costringe, e soffoca. Costringe a immaginarsi come numeri di un cartellino o numeri di ascolti, o, peggio, come un insieme di misure di altezza e circonferenza. Costringe a riassumersi in un nome, che poi, tanto, il capo può cambiare per amor di brevità.
Difficile mantenere il proprio equilibrio, mentre una voce ferma e autorevole impone di inginocchiarsi e strisciare, per poi essere spolpati come gamberetti e buttati via come carcasse, in un bagno di sangue. A queste condizioni, Elisabeth non resiste (e non esiste) più. Nuovo anno, nuova me, no? Peccato che non sia così semplice. Non ci si libera da se stessi. E quando si elimina quanto rimane di umano per creare la perfezione, il sonno eterno della ragione genera il mostro.
Complimenti ai sound-designer, che mi hanno fatto accapponare la pelle dall’inizio alla fine.
Davide Imbesi