Recensione di È SOLO LA FINE DEL MONDO

Lunedì 24 luglio ore 21:30 Arena Daturi

È SOLO LA FINE DEL MONDO

di Xavier Dolan con Nathalie Baye, Vincent Cassel, Marion Cotillard, Léa Seydoux, 1h 39’, CAN-FRA 2016

Meno male che arriva il canadese Xavier Dolan (che credete magari di non conoscere ma invece conoscete benissimo, perché è il regista del videoclip di Hello, della cantante Adele, un miliardo di visualizzazioni in tre mesi) a scaldarmi il cuore in questa fine anno gelida con un dramma familiare tutto urlato eppure tutto trattenuto, dove i personaggi parlano parlano ma raramente dicono quello realmente vorrebbero dire.
Tratto da una piece teatrale di Jean-Luc Lagarce, autore poco conosciuto in Italia, morto di AIDS nel 1995 a soli 38 anni, scritta nel 1990 (l’anno è importante perché ci ritroviamo ad affrontare un tema non più attualissimo), questo È solo la fine del mondo, accolto al Festival di Cannes con applausi a scena aperta, premiato con il Gran Premio Speciale della Giuria ritirato da un Dolan in lacrime, è un film sull’elefante dentro la stanza.

Louis (Gaspard Ulliel), drammaturgo di fama, torna a casa dopo più di dieci anni e trova una famiglia emozionata e rancorosa: la madre Martine (Nathalie Baye), la sorella Suzanne (Léa Seydoux), il fratello Antoine (Vincent Cassel) e la cognata Catherine (Marion Cotillard).

Dopo una partenza impacciata, tutti i protagonisti a rotazione fanno i conti con il deus ex machina, in piccoli siparietti dedicati: la madre che gli chiede di gratificare i fratelli, la sorella che ha bisogno di amore e approvazione, il fratello che non contiene la rabbia e la voglia di ferire e che sembra non capire ma capisce perfettamente (“Perché mi stai dicendo questo? Vuoi farmi sentire speciale?”), mentre la cognata, che Louis incontra per la prima volta, siamo noi, gli spettatori, imbarazzati e attenti.

Un film che ha in tutto dieci attori inclusi i 5 protagonisti e che eppure è di una violenza impressionante: la violenza della famiglia che non si può mai misurare se non con il proprio metro personale. La famiglia volgare, imbarazzante, che cerca di mantenere un’apparenza ma che non ci riesce, che cerca di controllare le emozioni mentre le vomita da tutte le parti, che sa di non essere all’altezza e che per questo se la prende con chi ce l’ha fatta.

È solo la fine del mondo è un film bellissimo, girato in campi stretti, sempre addosso agli attori, a sottolineare la claustrofobia delle relazioni, ambientato perlopiù in interni, nel caldo soffocante dell’estate, è un film appiccicoso, che ti resta attaccato addosso, che pesca in qualcosa che hai visto e che non avresti voluto rivedere, in qualcosa che hai vissuto e che non avresti voluto rivivere.

“You’ve got to get obsessed and stay obsessed” (Devi fartene un’ossessione e restare ossessionato), dice lo scrittore John Irving in quel libro magnifico che è “Hotel New Hampshire”. Sembra che Dolan, che pure è giovanissimo (del 1989) continui a fare lo stesso film, sugli stessi temi, la famiglia, la madre, l’omosessualità. Ma sono così belli, così coinvolgenti, così crudi e veri questi suoi film che io spero che resti ossessionato per sempre.

Barbara Belzini

Courtesy of Piacenzasera.it

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