Recensione di Le assaggiatrici

Postille alle Assaggiatrici

A ottant’anni dalla caduta del regime nazista, Silvio Soldini contribuisce a svelare un lato inedito della storia contemporanea. E lo fa con “Le Assaggiatrici”: questo il titolo del suo ultimo film, tratto dall’omonimo romanzo uscito nel 2018. Fluita dalla faconda penna della scrittrice calabrese Rosella Postorino, la narrazione trae spunto da una vicenda reale: quella di Margot Wölk. Purtroppo, Margot è morta nel 2012 a 95 anni, pochi giorni prima della data in cui avrebbe dovuto incontrare e conoscere la scrittrice italiana.

Pertanto, Rosella Postorino ha deciso di incentrare la propria storia su un personaggio fittizio, liberamente ispirato a Margot Wölk, attraverso il quale dare voce alle donne, troppe volte dimenticate dalla Storia, ma non di rado protagoniste al pari degli uomini nelle tumultuose vicissitudini della Seconda Guerra Mondiale. Infatti, la protagonista della storia e le sue compagne sono chiamate all’estremo sacrificio della vita senza alcuna possibilità di tirarsi indietro, esattamente come gli uomini impegnati nei combattimenti al fronte. Come i loro mariti, padri, fratelli e figli sono tenuti ad affondare i propri stivali nella gelida neve di Russia al fine di consentire, un domani, di farlo in tutta sicurezza anche a Hitler, così Rosa Sauer e compagne sono obbligate ad assaggiare le pietanze del Führer prima che questi le riceva all’orario dei pasti. Come spesso accade, l’abuso subito non basta ad aprire gli occhi: se da un lato Rosa, Elfriede e Leni riconoscono e aborrono l’ingiusta violenza a cui sono sottoposte, altre del gruppo, come la giovanissima Sabine, non riescono a d astrarsi dai folli ideali e dalla pericolosa retorica della propaganda hitleriana.

Come diverse altre recenti pellicole imperniate sul tema storico e politico dell’esperienza totalitaria tedesca, anche “Le Assaggiatrici” di Silvio Soldini cerca di far luce su quella che, con un’espressione di Arendtiana memoria, si può definire la banalità del male. Ancor più di altri prodotti cinematografici, pur molto recenti e pluripremiati dalla critica internazionale, “Le Assaggiatrici” riesce estremamente bene a trasmettere la vera essenza della banalità del male. E non è soltanto mediante il personaggio ambiguamente affettuoso dello chef di Hitler che scrittrice e regista delineano un identikit di quella che è la banalità del male. Non soltanto attraverso gli sciocchi slogan di ispirazione hitleriana che escono dalla bocca della giovanissima Sabine. Ma anche tramite la descrizione di tanti altri personaggi, solo apparentemente secondari. Tra questi, i genitori di Gregor, il marito di Rosa arruolato nella Wehrmacht e disperso in Russia. Protetti dal fatto di essere inascoltati tra le quattro mura di casa propria, questi si mostrano insofferenti nei confronti del Regime. Pur essendo stremati dalla crisi economica in cui la Germania sta sprofondando a causa della Guerra di Hitler, ma anche straziati dalla perdita del figlio, i due anziani non riescono a opporsi, nel momento in cui Rosa viene sottratta loro, anche con l’uso della forza, in cambio di un comodo rimborso-spese.

Al fine di rendere un’immagine non soltanto ideale ma anche concreta di quale potesse essere l’indole alla base del male che aveva dato i natali all’olocausto, Hannah Arendtsfruttò l’enorme riscontro mediatico che ebbe la notizia del processo contro Adolf Eichmann. Lo descrisse come un uomo fin troppo ordinario: non certo brillante, né poi particolarmente intelligente, ma nemmeno stupido, e tantomeno sanguinario.

Semplicemente, senza idee. Se non quella di fare carriera: aumenti, promozioni, medaglie, riconoscimenti, pacche sulle spalle. Un cagnolino ammaestrato. O, come diremmo noi oggi, uno “yes-man”.

E così appare anche Albert Ziegler, severo comandante delle SS posto a capo della caserma in cui sono tenute le assaggiatrici di Hitler. Sono le solite, vecchie come il mondo, le giustificazioni che ripete anche e soprattutto a sé stesso per cercare invano di lavarsi la coscienza dalle atrocità commesse in nome del Regime. In prima battuta appare evidente il fatto che Ziegler non abbia idee, come ogni altro uomo normale (e banale) del suo (e forse anche del nostro) tempo. E, più in particolare, non abbia idea di cosa stia facendo realmente. Dopo aver approfondito la conoscenza del suo personaggio, anche grazie alla passione amorosa che sembra nascere tra lui e Rosa, si coglie una sfumatura del suo carattere ancor più agghiacciante. Ziegler ha rinunciato alle proprie idee: lotta contro di esse a colpi di pistola ogni giorno, per far posto a quelle molto più importanti e soprattutto più utili del Regime. Complice e al tempo stesso vittima anch’egli, esattamente come le ragazze di cui è chiamato ad essere il cerbero, dell’Inferno ideologico nazista di lì a poco destinato a tramontare. Un Inferno dalle caratteristiche che al giorno d’oggi potrebbero ricordare situazioni che leggiamo sui giornali, che vediamo su TikTok, o che talvolta persino viviamo nella nostra quotidianità.

Un inferno che, citando il collettivo filosofico che opera sotto il nome di Jianwei Xun, si potrebbe definire “ipnocrazia”.

Davide Imbesi

torna ai progetti