La scapestrata famiglia Kim vive in un sudicio seminterrato in un quartiere popolare di Seoul. Grazie a una raccomandazione e alla falsificazione di alcuni documenti, il figlio maschio Ki-woo riesce a farsi assumere dalla facoltosa famiglia dei Park per impartire lezioni private di inglese alla figlia. Affabili quanto astuti e imbroglioni, i Kim entrano nelle grazie dei Park con l’inganno insinuandosi progressivamente nella loro dimora: il padre Ki-taek come autista (l’attore feticcio Song Kang-ho), la sorella di Ki-woo, Ki-jung, come arteterapista, la madre Chung-sook come governante tuttofare. Tuttavia una notte di pioggia la ex donna di servizio fa ritorno all’abitazione svelando loro un curioso segreto che si cela nel sotterraneo della villa, rendendo improvvisamente pericolante l’impalcatura di menzogne edificata dai Kim.
Parasite costituisce il ritorno in patria per il regista sudcoreano Bong Joon-ho dopo le due produzioni statunitensi che rispondono al nome di Snowpiercer (2013) e Okja (2017). Con questa opera Bong mette d’accordo pubblico e critica in tutto il mondo riscuotendo successo anche nei borghesi salotti festivalieri di Cannes, dove è stato premiato con la palma d’oro al miglior film (primo sudcoreano della storia a ottenere tale riconoscimento). Che il cinema asiatico sia probabilmente il più interessante del mondo a oggi, ci sono pochi dubbi in merito. Poche cinematografie sanno rappresentare la liquidità della società contemporanea, liberandosi da ogni tabù inerente a contenuti e messa in scena, come quella sudcoreana. Al confronto con l’oriente il cinema occidentale, anche quando di altissimo livello, sembra volersi rifugiare nel proprio passato glorioso riesumandone storie, iconografie, stilemi. Per non parlare ovviamente del cinema italiano ridotto a un protratto canto funebre della borghesia che stancamente ritrae. Insomma, come già ci ha mostrato l’altro recentissimo e acclamato caso sudcoreano di quel folgorante, Burning di Lee Chang-dong, in Corea del Sud il tema delle disparità sociali generate del capitalismo è tangibile e al centro del dibattito intellettuale, insieme al fallimento delle nuove generazioni che non sanno leggere il tempo in cui vivono. Anche nel film di Lee abbiamo un adolescente al centro del racconto completamente spaesato, alla ricerca di una strada, e un incontro metaforico con un candido e misterioso esponente di quella sgradevole categoria di arricchiti che vive in una lussuosa dimora i cui interni richiamano il design della villa dei Park.
Il lavoro sulle scenografie e la costruzione degli spazi del racconto è centrale nell’economia dell’opera. Bong costituisce una dicotomia tra i Kim e i Park resa ancor più evidente dal contrasto delle due abitazioni: da una parte abbiamo una sontuosa casa in design dagli spazi che appaiono infiniti, in cui ogni dettaglio e corredo spicca per la sua modernità e in cui si apre un’ampia vista sul giardino antistante. Dall’altra abbiamo spazi angusti e sporchi, bui, in cui le tinte dominanti sono fredde e richiamano il grigio del cielo di Seoul. Anche lo sguardo sull’esterno è fortemente limitato a una finestrella posta sotto il livello della strada e davanti alla quale un passante ubriacone è solito pisciare ogni giorno. Ma i poveri non sono santificati, per quanto sia naturale parteggiare per loro. Essi si fanno strada con l’inganno, inscenano una finzione (quasi metacinematografica, recitando un copione), approfittano della desolante ingenuità della padrona di casa Park per sostituire i precedenti collaboratori parimenti bisognosi. Sono poveri che, come tutti, sognano di diventare ricchi e anche quando il sogno svanisce e si ridimensiona, arrivati al finale, sembra che la via indicata dal denaro sia l’unica ambizione percorribile perfino per ricucire gli affetti.
In questi ampi spazi architettonici la macchina da presa si muove sinuosamente descrivendoli argutamente e seguendo i personaggi tra i corridoi, le scale, come fece a suo tempo la steadicam di Kubrick in Shining. È un film dall’assoluta perfezione tecnica in cui la magniloquenza di regia, fotografia e scenografia rischiano di andare però a discapito della consistenza dei personaggi e del narrato. La costruzione dell’insieme è senz’altro più segnante della tutto sommato fredda morale antiborghese. La commistione bonghiana tra commedia e dramma funziona ma forse la forte tipizzazione e stereotipia della famiglia Park finisce col ridurre la ferocia dei cattivi capitalisti, ridotti a tragicomiche macchiette. Probabilmente però ciò che il regista intendeva fare era scagliarsi contro la società sudcoreana tutta, buoni e cattivi, ricchi e poveri, Kim e Park (i due cognomi più comuni, che messi insieme rappresentano la quasi totalità della popolazione, come se il bersaglio fosse la Corea tutta). Insomma, non un film sulla lotta di classe ma sul fallimento inesorabile di quest’ultima dettato dall’irriducibile egoismo umano che finisce col generare conflitti i membri delle classi subalterne, chiusi nei propri individualismi.
In sostanza un bellissimo film ma che certamente non può sorprendere chi già conosce l’autore ed è stato precedentemente inebriato dalla sua meticolosità tecnica e dalla sua ironia. Se pensiamo che Bong è lo stesso regista di perle rare quali Memories of Murder, Snowpiercer e The Host, risulta complicato definire questo pur riuscitissimo Parasite come il definitivo compimento della sua maturità autoriale.
L’oriente è senza dubbio il bacino giusto cui attingere per assaporare il gusto di un cinema nuovo, sperimentale e coraggioso, in cui i generi cinematografici tradizionali possono assorbire nuova linfa. E se la palma d’oro di Parasite potrà servire ad aprire gli occhi di tanti spettatori verso questo mondo, ben venga. Si spera solo che la ferocia connaturata al cinema dell’Estremo Oriente non venga stemperata dal desiderio di compiacere noi decrepiti occidentali e che, se è questa critica anticapitalista che il pubblico vuole, possano trovare distribuzione e consensi festivalieri anche altri autori orientali che hanno fatto del cinema, da molti anni, uno strumento di anticonformismo.
Federico Cristalli