Marco Bellocchio torna a raccontare le ombre dell’Italia seguendo modalità simili a quelle di opere precedenti da lui dirette come Buongiorno, notte (2003), Vincere (2009) e Bella addormentata (2012). In questi film il regista bobbiese aveva scelto come punti di partenza alcune pagine ben note e dolenti della nostra storia più o meno recente e le aveva messe in scena alla sua maniera cronachistica e romantica, documentaristica e crudele, fedele e immaginifica. La stessa operazione viene compiuta nel caso de Il traditore (2019), suo ultimo lungometraggio presentato a Cannes e trionfatore ai Nastri d’argento, poi successivamente selezionato per rappresentare l’Italia ai Premi Oscar 2020. Attraverso il racconto focalizzato sul pentito di mafia Tommaso Buscetta (Pierfrancesco Favino) Bellocchio non solo riapre una ferita ancora viva ma racconta i gravissimi vizi e gli imperdonabili peccati connaturati al nostro Paese, al sistema Stato in generale, al di là dei confini del caso affrontato. Dunque abbiamo il racconto storico e il conseguente registro cronachistico che si alternano a uno sguardo più umano e intimistico non solo rivolto alla figura di Buscetta ma in generale a quella dell’uomo che torna sui propri passi e che, tradendo a più livelli e in più direzioni, assurge metaforicamente al titolo di eroe (come nel noto racconto di Borges), pur con tutta la cautela del caso a definire tale chi ha sposato il crimine ed è tornato sui propri passi non perché realmente pentito ma perché non condivideva la nuova identità assunta dall’organizzazione Cosa Nostra a seguito dell’ascesa dei corleonesi.
Il film si apre con un gruppo di famiglia in interno: siamo a Palermo e Buscetta è circondato da nomi più o meno noti di Cosa Nostra, che lo abbracciano e gli stringono la mano. Accanto a lui, oltre alla terza e ultima moglie Maria Cristina (Maria Fernanda Cândido), troviamo nomi quali Salvatore Inzerillo, Pippo Calò (Fabrizio Ferracane), Stefano Bontate, Salvatore Contorno (Luigi Lo Cascio), Totò Riina (Nicola Calì). Molti di questi moriranno in seno alla rivoluzione interna all’organizzazione che porterà appunto all’ascesa dei corleonesi a discapito del clan dei palermitani, altri verranno traditi dal Buscetta e saranno per questo condannati, altri ancora – innocenti e incensurati – verranno assassinati per avere commesso l’unico peccato di portare il nome di Buscetta, come accade al fratello e ai figli Benedetto e Antonio. Da questa foto di gruppo che è un’istantanea della situazione di partenza, si dipana il film raccontando i decenni successivi sino alla morte di Buscetta (naturale, come lui stesso si augurava a più riprese) avvenuta nel 2000 negli Stati Uniti. Il racconto si allarga quindi dalla Sicilia al Nuovo continente, partendo da Rio de Janeiro dove il protagonista si è costruito un impero fondato sul traffico di stupefacenti e una seconda famiglia (o terza, se consideriamo la proverbiale “famigghia” mafiosa).
Identificato dalla polizia brasiliana viene dapprima torturato e poi sottoposto all’estradizione nel suo paese d’origine in un momento in cui è già scoppiata la faida tra clan e in cui il suo nome è in cima alla lista degli esponenti della vecchia guardia da depennare. La collaborazione con il giudice Giovanni Falcone diventa quindi l’unica strada possibile da intraprendere per il Buscetta che instaurerà una relazione di stima reciproca con il suo interlocutore risultando determinante dapprima nella stesura di oltre quattrocento pagine di rapporto contro un folto numero di esponenti di Cosa Nostra e, in un secondo momento, nel maxiprocesso iniziato nel 1986 che avrà come conseguenza la condanna all’ergastolo per quasi tutti gli imputati. Da manuale di recitazione i confronti tra Favino e Ferracani, la deposizione di Contorno/Lo Cascio in siciliano stretto, e altri assurdi momenti del processo ripresi testualmente dalle immagini di repertorio.
Dopo la morte di Falcone nel 1992 Buscetta – rinnegato dalla sua famiglia d’origine in quanto traditore – alza il tiro e fa il nome di Giulio Andreotti accusandolo di essere coinvolto nella strage di Capaci e in altri delitti di mafia. Le sue dichiarazioni gli si ritorcono come un boomerang costringendolo, ancora una volta, a lasciare suo malgrado il Paese in direzione USA. Per un pentito di mafia lo spettro della morte incombente è però costante e lo segue in ogni suo movimento. Egli sogna di fare ritorno alla sua Terra, di poter mangiare un gelato a Mondello: un sogno destinato a restare tale perché Cosa Nostra, seppur ridimensionata per quanto concerne la sua forma tradizionale, è ben lungi dall’esser morta ed anzi ha espanso la sua rete all’interno delle istituzioni diramandosi in tutto il Paese.
Il traditore rappresenta uno degli esempi più alti del cinema italiano del decennio (e c’è chi ha avuto il coraggio di parlare di estetica e racconto da fiction televisiva…). Racconta la mafia con uno sguardo agli antipodi rispetto a quello celebrativo e stereotipato proprio della serialità televisiva e di certo cinema recente. Si racconta la storia di uomini reali con nomi e facce scolpite nell’immaginario collettivo portandone sullo schermo le atroci viltà attraverso performance attoriali degne di nota e una regia che attraverso l’uso insistito dei primi piani ne fa emergere ogni sfaccettatura. Il film non è scevro di violenza ma non è tanto quella delle sparatorie e delle esecuzioni che sconvolge, quanto quella verbale dei processi e, più di tutte, quella dell’omertà e del rinnego che trapela dal racconto. Un racconto che scorre fluidamente nell’arco delle sue due ore venti senza che il corposo minutaggio appesantisca di una virgola una visione coinvolgente, segnante. La linearità del film è sovente interrotta da flashback, rievocazioni di infanzia a metà tra realtà e immaginazione che impreziosiscono la natura biografica dell’operazione. Il traditore non è, concludendo, un film che cade nel rischio di celebrare il boss dei due mondi: è al contrario un lucido racconto storico che prende le distanze dal dare semplicistici giudizi morali, che stende un’ombra su tutte le parti in gioco e che si fa carico di un concetto espresso un giorno dallo stesso Falcone in un’intervista: i mafiosi sono esseri umani, l’entrata nella mafia risponde a un confluire di diverse circostanze ma all’interno di Cosa Nostra esistono uomini più o meno sensibili, più o meno intelligenti, più o meno nobili. Alla base della mafia come organizzazione vi è un atteggiamento mafioso che è connaturato alla nostra cultura e che va estirpato perché rischia, come già accade, che cresca sotto altre forme nello Stato stesso.
Federico Cristalli