Recensione di Il cacciatore

Torna in sala in versione restaurata Il cacciatore di Michael Cimino, uno dei film più significativi della storia del cinema. In Italia uscì nel 1979, esattamente 45 anni fa: l’anniversario offre l’occasione per un nuovo giro di valzer nelle sale cinematografiche per chi lo ricorda, l’ha già visto più volte e per chi non l’ha mai visto, ma ora ha la possibilità di vederlo per la prima volta nella sua vita sul grande schermo. Cast fenomenale e cinque Oscar vinti per una delle pietre miliari del cinema sulla tragedia del Vietnam. Riscopriamolo nella recensione scritta dal Cat, ovvero il nostro Giulio Cattivelli.

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Il cacciatore

Drammatico, Usa 1978, 183’

I premi Oscar, lo sappiamo da un pezzo, non sono quasi mai termometri e sigilli di validità artistica, ma esprimono comunque orientamenti motivazioni non trascurabili degli addetti ai lavori dell’industria cinematografica, a loro volta molto sensibili agli umori e preferenze del pubblico. Ora non è un caso se i due film che si sono accaparrati quest’anno il maggior numero di statuette – Il cacciatore e Tornando a casa – affrontano in modo più o meno diretto lo stesso spinoso argomento, la guerra del Vietnam, rimasto così a lungo tabù per i produttori di Hollywood (se si escludono il rozzamente propagandistico Berretti verdi del “falco” John Wayne e alcuni film “contro” della produzione off come Glory Boy e Soldato d’inverno, confinati nel ghetto dei festival). E che il tema sia tuttora imbarazzante e scottante lo confermano le curiose esitazioni che ritardano l’uscita di Apocalypse Now di Coppola, pronto da due anni e costato 25 miliardi.

Il perché di tante remore dovrebbe essere abbastanza chiaro: quella del Vietnam è la prima guerra perduta nella storia della più grande potenza moderna: una sconfitta con diverse facce (militare, politica, economica e morale), che ha prodotto nella coscienza civile americana traumi o lacerazioni persistenti malgrado le rapide evoluzioni della politica internazionale e l’eclisse del mito vietnamita agli occhi dei progressisti di tutto il mondo, specie dopo l’attacco alla Cambogia.

L’interesse, l’importanza del pluripremiato Cacciatore non risiedono ad ogni modo nei suoi aspetti più appariscenti, nelle attrattive che questa fluviale e ridondante pellicola può esercitare sugli spettatori più ingenui e tradizionalisti. Il filmone firmato dal giovane Michael Cimino (un altro oriundo che per il momento dimostra robuste doti professionali, ma non l’estro e lo stacco di una riconoscibile personalità d’autore) appartiene infatti come taglio e struttura al magazzino dei ferrivecchi hollywoodiani: è il melodramma degli “uomini in guerra” stile anni Cinquanta, i diversi destini di tre amici combattenti (l’eroe, il disertore, il mutilato), il confronto tra l’inferno del conflitto e il ricordo del dolce nido domestico con le donne, gli amici e i passatempi, primo fra tutti la caccia al cervo, simbolo di sfida leale in una cornice di maestosa purezza alpestre, dove il cacciatore deve abbattere l’animale al primo colpo o lasciarlo vivere.

Nell’economia dell’intreccio il Vietnam sembra poi una presenza marginale intercambiabile. I Vietcong (tra l’altro mostrati soltanto quali carcerieri e aguzzini insieme sadici e stupidi, visto il modo in cui si fanno eliminare dai prigionieri inermi) potrebbero essere sostituiti indifferentemente dai “musi gialli” giapponesi o addirittura dai pellirosse dei western prima maniera, quelli dove l’unico indiano buono era l’indiano morto.

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Un altro segno dell’artificiosa gratuità dell’opera è l’insistenza sull’emblematica trovata della “roulette russa” (il contrario della caccia al cervo), che prima è una raffinata feroce tortura inflitta dai Viet ai prigionieri e poi paradossalmente nella Saigon agonizzante diventa un barbarico sport suicida in cui si specializza il disertore americano che aspetta per morire proprio l’arrivo dell’amico ritornato nell’inferno con l’intento di salvarlo.

L’elemento che invece riattualizza il Vietnam, e risolleva l’interesse, nonché il livello del film, è lo stato d’animo che traspare dietro all’intera vicenda. Scomparso – et pour cause – il trionfalismo dei film dei marines, su tutta la storia (a cominciare dall’ingresso nella festa di nozze del reduce coperto di nastrini ma cupo e laconico, che agli approcci degli ammiratori risponde soltanto una ripetuta parolaccia) grava un plumbeo senso di frustrazione, vergogna, disgusto, quasi lo stupore e l’intontimento di un inspiegabile k.o. che impedisce non solo ai personaggi, ma sembra persino ai realizzatori, di fare un lucido e franco esame di coscienza – ormai doveroso, dopo tanto tempo – sui motivi, gli errori e delle responsabilità storiche della funesta avventura.

In questa direzione il film dice ben poco (c’è solo il fuggevole accenno di una giornalista televisiva alle divisioni dell’opinione pubblica) e vi contrappone soltanto una reazione sintomatica di tipo infantile: il rifugio nel “privato”, il sollievo del ritorno al focolare natio come recupero di una serenità e sanità morale contaminata dagli orrori e dalle turpitudini di una sporca guerra esotica in cui ci si è fatti invischiare, chissà mai perché.

E a questo punto giova sottolineare la cornice in cui la vicenda è collocata: una disadorna cittadina operaia della Pennsylvania abitata in prevalenza da immigrati di origine slava, molto attaccati alle loro costumanze e alla religione ortodossa. Il folclore di questo ambiente volutamente provinciale e arcaico, è cantato da Cimino con accenti suggestivi ma anche con turgido lirismo (quel matrimonio interminabile), con un abbandono elegiaco che trova sublimazione nel malinconico e mistico inno finale dopo le esequie di Nick. Sul piano sentimentale e descrittivo la pittura di questa “piccola patria” è la cosa più seducente del film, quella in cui meglio si innestano i volti dello splendido De Niro, degli nteressanti Christopher Walker (Oscar per l’attore non protagonista) e John Savage e degli altri componenti il pittoresco coro; e in cui ottengono i migliori risultati la raffinata fotografia di Vilmos Zsigmond, la partitura musicale e tutte le altre malizie espressive rigorosamente fedeli alle classiche ricette hollywoodiane sull’arte di sciogliere i succhi ideologici nel cocktail variopinto di un grande spettacolo. Ma – a proposito di ideologia – quell’ambiente è anche un segnale di ripiegamento e di chiusura angustamente campanilistica, quasi a dirci che, tradotto in termini politici, l’approdo del Cacciatore sia la tentazione di un neo-isolazionismo di sapore anacronistico, contraddittorio fra l’altro con il ruolo e con le responsabilità di nazione-guida dell’Occidente che agli Stati Uniti obiettivamente competono.

Cat

Libertà 13 aprile 1979

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