Recensione di Blade Runner

Il 14 ottobre 1982, circa un mese dopo la sua prima proiezione italiana alla Mostra del cinema di Venezia, Blade Runner approda nelle sale del Belpaese. Quarant’anni dopo, il film di Ridley Scott resta uno dei capisaldi della cinematografia mondiale. Non solo della sci-fi, bensì del cinema tout court: è un film di culto. L’opera ha avuto un’enorme influenza nell’immaginario collettivo e un sequel nel 2017, Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve. Tuttavia, riportiamo la recensione di Giulio Cattivelli, che probabilmente non riteneva la pellicola un capolavoro della settima arte; il “suo” cinema era un altro. Ma proprio per questo, forse, è interessante leggere il testo critico del Cat, mai banale e ben argomentato.

C580E31A-9568-4814-8663-151387DAE8C4

BLADE RUNNER di Ridley Scott (USA 1982, 118’)

Pare che in America la fantascienza batta ormai ogni altro genere nelle preferenze di un pubblico formato in schiacciante percentuale da giovani tra i 14 e 25 anni; e allora fantascienza sia. Specie se è di buona lega come questo Blade Runner (letteralmente “il corridore sul filo del rasoio”), terzo lungometraggio del regista inglese Ridley Scott, che dopo l’esordio con il finissimo I duellanti vista l’aria che tira era già saltato dalle parrucche settecentesche al thrilling interplanetario di Alien.

761635DF-411A-445D-BBE9-D84F6C5A8495

Blade Runner (che ha qualche analogia con 1997: Fuga da New York) tenta con successo l’innesco tra fantascienza e poliziesco classico degli anni 40, stile Chandler per intenderci. La storia si svolge nel 2019 in una Los Angeles degradata e insieme tecnologicamente sofisticata. Ma i vantaggi dell’elettronica e un clima sopportabile se li godono soltanto i ricchi e i potenti dei quartieri alti; la parte bassa della città dove vive la povera gente è una specie di bidonville da Terzo Mondo avvelenata dagli inquinamenti e immersa costantemente in un marciume paludoso e in una luce crepuscolare. In questo scenario da incubo l’eroe della vicenda, il detective Rick Deckard dà la caccia ai “replicanti”, androidi perfettamente simili agli esseri umani ma privi di memoria e di sentimenti (e quindi avvantaggiati nella loro azione di ribelli che si sono mimetizzati fra le persone normali).

B0762A5D-77AE-4E88-BFC1-623F46054BB5

Il film (che in questo particolare può contenere un riferimento ai vari terrorismi) suggerisce anche altre allusioni, simboli e significati metaforici (il dramma degli essere artificiali che non hanno un passato, un’infanzia, una famiglia da ricordare; la loro condanna a un’esistenza breve, come di macchine usurate; e la toccante trovata del messaggio di vita che proprio il più spietato dei replicanti affida al suo nemico prima di estinguersi).

AC619480-BFEA-43C3-ADB3-5C40B55A62EB

Ma naturalmente, la maggior parte del pubblico apprezzerà il film soprattutto nella sua caratteristica più immediata di favola avventurosa, riuscita contaminazione di diversi filoni, ricca di suggestiva trovate, raccontata con ritmo aggressivo e avvincente, nessun risparmio di messi e abilissima fusione di ogni tecnica espressiva, dai mirabolanti effetti speciale di Douglas Trumbull (quello di 2001: Odissea nello spazio e Incontri ravvicinati) alle musiche elettroniche dello specialista Vangelis. Il protagonista Harrison Ford (che per l’occasione ha deposto il cappello e i baffi di Indiana Jones) si conferma interprete ideale di questo genere di storie, costosi balocchi di chi cerca al cinema un divertimento puro che associ la tecnica più raffinata al massimo candore.

Libertà, 12 novembre 1982

torna ai progetti