“Questa è la mia vita”

Questa è la mia vita (Vivre sa vie: film en douze tableaux, Francia 1962, 85’) di Jean-Luc Godard

Questa è la mia vita (Vivre sa vie) è il quarto film del trentenne Jean-Luc Godard, enfant terrible della “nuova ondata” francese. Dei suoi lavori precedenti il pubblico italiano conosce l’esplosivo Fino all’ultimo respiro, biglietto da visita insolente e provocatorio nel suo disprezzo per ogni regola di grammatica e di sintassi, che ben si accorda con il programmatico e anarchico nichilismo del contenuto e con il sincero grido di disperazione che sale dal fondo; e il meno impegnativo La donna è donna, che prosegue la stessa polemica antiromantica e antitradizionale in chiave di balletto e di commedia musicale. Vivre sa vie, presentato l’anno scorso a Venezia, conferma il singolare talento del suo autore nonostante i limiti e gli aspetti discutibili di cui diremo. È un film difficile da raccontare senza travisarne il senso, il carattere, l’intonazione. In sintesi è la storia di una ragazza che per “vivere la propria vita”, cioè per essere veramente libera e responsabile delle proprie scelte, lascia il libero impiego di commessa e diventa una prostituta di professione.

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Il suo comportamento è giustificato con una frase di Montaigne, che funge da epitaffio al film “Bisogna prestarsi e donarsi a noi stessi”. In altre parole, secondo il regista, la protagonista Nanà noleggia il proprio corpo ma salva la propria anima.

Come si vede navighiamo in pieno paradosso, per non dire di peggio. Ma il gioco di Godard è chiaro: ha scelto cioè un argomento volutamente convenzionale e antichissimo – la degradazione della donna – per il gusto di capovolgere i termini e la morale, di svilupparlo in maniera insolita, spregiudicata, anticonformista. Come sempre i risultati di Godard sono per metà irritanti e per metà affascinanti. Infastidisce soprattutto il culturalismo, il continuo sfoggio di citazioni, il tentativo di dare alla prostituzione una giustificazione filosofica (nel film si richiama il concetto sartriano della responsabilità, si confrontano i principi di “essenza” e di “esistenza” per concludere che si tratta di zuppa e pan bagnato; si citano anche Platone e Leibnitz, Kant e Hegel, Poe e Baudelaire, per arrivare ai Tre moschettieri). Irritano il fondo snobistico dell’opera, le strizzatine di occhio agli amici, i riferimenti da topi in cineteca (come l’inclusione di una sequenza della Giovanna d’Arco di Dryer e dei manifesti dell’ultimo film di Truffaut); risultano urtanti, in una parola, la prosopopea tutta francese e il vizio tipico degli autori della “nouvelle vague” di dare ai propri lavori il marchio di una conventicola, il carattere di un gioco di società riservato a una ristretta cerchia di viziati.

Nello snobismo di cui sopra rientra anche l’affettazione di una falsa semplicità e di un calcolato primitivismo, la riesumazione di trovate tipiche del cinema muto come i fondali neri o la suddivisione del film in brevi capitoli annunciati con numeri progressivi e didascalie riassuntive dei titoli con relativi “sommarietti” spezzettati alla maniera dei romanzi dell’Ottocento. questi difetti potrebbero essere anche veniali e sopportabili se non avessero la loro ragione in un equivoco fondamentale che non riguarda soltanto Godard ma tutto il giovane cinema francese: la confusione tra cultura e culturalismo, il fare dell’erudizione esteriore un surrogato dell’arte.

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Per fortuna, e vorremmo dire suo malgrado, Godard è davvero un artista. Iconoclasta, ciarlatano, mistificatorio, ma autentico uomo di cinema. Per questo il suo film è anche affascinante, e lo è per quel miscuglio di trucchismo e di sincerità, di sciatteria calcolate e involontarie, di sofferenza vera e fasulla su cui l’autore specula abilmente in modo da non far capire dove finisce il gioco e dove incomincia il dramma. Come i precedenti, Vivre sa vie è un film personalissimo: alla novità e spregiudicatezza del contenuto corrisponde quella della forma, di un linguaggio aggressivo e tagliente che rompe tutte le convenzioni del cinema tradizionale attraverso un vertiginoso succedersi di immagini nervose e lampeggianti nella loro apparente sconnessione tratta l’evoluzione del personaggio dall’esterno all’interno, rivelandone il carattere e le ragioni dell’agire attraverso una serie di giornate tipiche, di minuti e banali particolari della sua esistenza. Ne scaturisce un indimenticabile ritratto femminile quello dell’incantevole bravissima Anna Karina, già protagonista de La donna è donna e qui stranamente assomigliante alla Cardinale di Senilità.

A Godard è però mancato il coraggio di essere anticonformista in fondo, e ha fatto morire la sua Nanà, vittima accidentale di una rissa tra sfruttatori, anziché dare alla sua storia un epilogo lieto e tranquillo come aveva pensato in un primo tempo. Il regista ha dichiarato che questa morte casuale non cambia il significato dell’opera e non si deve assolutamente attribuirle il valore moralistico di un castigo del fato. Apparente contraddizione il tragico epilogo si addice comunque all’ambiguità del lavoro e forse si accorda con il rifiuto della ragione e della storia, con la sotterranea disperazione già rassegnata che è una delle note più profonde e sincere di quest’opera sconcertante i cui personaggi, paghi di sentirsi esistere nell’attimo presente, sono l’eloquente specchio di una società e di una nazione giunta al culmine della sua crisi, e paurosamente incerta del domani.

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Libertà – 13 agosto 1963

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