Premio Cat 2020 – Vincitori

Premio Cat 2020 – Vincitori. Dopo un lavoro di selezione preliminare a cura di Cinemaniaci, la Giuria del Premio Cat 2020 costituita da Alberto Barbera, Angelo Bardini, Barbara Belzini, Andrea Canepari, Laura Chiappa, Ilaria Feole, Ilaria Floreano, Mariangela Granelli, Enrico Marcotti, Paola Piacenza, Roberto Roversi e il presidente della giuria Mauro Gervasini ha concluso la valutazione dei testi in gara nel contest intitolato al giornalista e critico cinematografico piacentino Giulio Cattivelli.

La serata delle premiazioni si è svolta sabato 13 febbraio 2021 dalle ore 20.30 online, è stata trasmessa dalla televisione Telelibertà e si può guardare interamente sul canale YouTube di Cinemaniaci (https://www.youtube.com/c/cinemaniaci).

Di seguito le recensioni premiate con le relative motivazioni. Oltre ai quattro testi premiati per ciascuna sezione del concorso, ci sono altri riconoscimenti: le menzioni speciali e la targa Enrica Prati.

Il direttore artistico Piero Verani ringrazia tutte le persone che hanno collaborato alla riuscita della quarta edizione del Premio Cat e annuncia che nel 2021 si terrà la quinta.

Premio Cat 2020 – Quarta edizione

Menzioni speciali

Fleabag

Il talento di Phoebe Waller-Bridge è senza dubbio fra le rivelazioni più luminose che siano apparse sullo schermo negli ultimi anni. Qualsiasi riflessione su “Fleabag”, premiatissima serie da lei scritta e interpretata, non può in alcun modo prescindere dal riconoscerla come una delle migliori autrici della sua generazione, capace di narrare con intelligenza e complessità una storia profondamente umana, divertente quanto dolorosa. Nelle due stagioni finora realizzate, dirette da Harry Bradbeer e composte da dodici brevi episodi di neanche mezz’ora ciascuno, la trentacinquenne autrice londinese racconta e interpreta la vita di una giovane donna alle prese con l’elaborazione di un trauma, diverse e scombinate relazioni affettive e una famiglia a dir poco disgregata. Titolare di una piccola caffetteria, Fleabag – in italiano letteralmente sacco di pulci – deve infatti sopravvivere alla tragica perdita della sua migliore amica Boo (Jenny Rainsford), morta in un incidente il cui ricordo, prima rimosso e poi accolto, sarà uno dei principali motori narrativi della serie.

Come già notato in una puntata di Muse col Muso, podcast il cui ascolto è stato utilissimo ai fini della stesura di queste righe, Fleabag è innanzitutto un personaggio ricco di contraddizioni e perciò dannatamente interessante. Ella è infatti una donna sgradevole, egoista, perennemente imbronciata, spesso fuori luogo e all’apparenza insensibile nei confronti di qualsiasi sentimento esuli il suo narcisistico bisogno di venire apprezzata. Incapace di congedarsi emotivamente dalla madre defunta, vive inoltre in aspra opposizione ai suoi famigliari: litiga in continuazione con la sorella Claire (Sian Clifford), che con la sua impeccabile compostezza e la sua invidiabile carriera le ricorda il proprio fallimento, a stento comunica col padre (Bill Paterson) e odia la sua matrigna (Olivia Colman), di cui non sopporta l’ipocrisia e il talento artistico. La spietata ironia con cui la serie descrive questi rapporti, seguendone gli sviluppi e mostrandone le ambivalenze, assicura allo spettatore dei personaggi credibili, sfaccettati e spesso irresistibili proprio grazie alla crudele rappresentazione delle loro fragilità.

L’ascendenza teatrale sulla struttura di “Fleabag” è evidente fin dal primo episodio della serie, denotandosi per chi scrive come la principale causa del suo successo e l’elemento cardine del suo impianto drammaturgico. Tralasciando per il momento il discorso sull’interpellazione e i ripetuti sguardi in macchina della protagonista – su cui torneremo fra poco – urge prima sottolineare alcune scelte, forse meno appariscenti ma ugualmente decisive per comprendere lo stile e la personale poetica della Waller-Bridge.
La maggior parte delle puntate racconta vicende che si svolgono in archi temporali molto ristretti, una giornata o addirittura poche ore. L’azione è quasi sempre al presente e affidata al dialogo, mentre i flashback, volti sia ad accentuare la tensione che ad approfondire alcune linee narrative, sono distribuiti con cura e spesso chiarificatori della reale natura del travaglio provato dalla protagonista. Diversi episodi poi sono ideati e messi in scena come veri e propri atti teatrali. Cene, feste, matrimoni, vernissage, raduni famigliari: tutte situazioni che rispettano le classiche unità di tempo e luogo e che permettono di soffermarsi contemporaneamente sulla costruzione del pathos, sui legami fra i personaggi e il delineamento dei loro caratteri. La Waller-Bridge riesce in questo denso e tutt’altro che semplice lavoro di “ordinata confusione” proprio perché padrona persino dei battiti e dei respiri della propria drammaturgia, la quale, raffinata e implacabile, si rivela per nulla incerta o timorosa di fronte all’irriverente possibilità del dissacro, dello sberleffo, del sarcasmo sguaiato e tagliente nei confronti del canone, dei tabù e della buona educazione.

Non è poi così azzardato definire “Fleabag” come una lunga confessione di un’esilarante e inaffidabile colpevole. Il personaggio della Waller-Bridge, che fra l’altro in un episodio della seconda stagione si troverà materialmente inginocchiato in un confessionario, racconta infatti la sua storia secondo un punto di vista del tutto instabile, conflittuale e più volte messo in discussione. Fleabag è in fondo una bugiarda cronica alla costante ricerca di assoluzioni. Il suo ossessivo desiderio di essere amata nonostante i suoi limiti e le sue colpe si esplica attraverso il continuo sfondamento della quarta parete, dinamica questa di solito molto pericolosa ma che qui viene calibrata al limite della perfezione. Più che agli altri personaggi della serie, Fleabag sembra infatti parlare a noi che la guardiamo: da noi è consapevole di venire giudicata e a noi in continuazione rivolge smorfie, battute, cenni e sorrisi che o contraddicono ironicamente l’azione mostrata o ne arricchiscono il senso e il grado di empatia. Se ciò da una parte mina brechtianamente la plausibilità dell’intreccio, dall’altra, agendo come una sorta di punteggiatura emozionale dei pensieri della protagonista, ci permette di entrare in sintonia col suo corpo e il suo dolore, riconoscendone le vulnerabilità e accogliendone i pregi. È proprio nell’affascinante e manomesso rapporto fra Fleabag e lo spettatore che risiede dunque la vitale energia di questa serie: ci troviamo infatti ad essere al contempo complici e pedine del precario racconto di una narratrice onnisciente, la quale non solo finge di non esserlo ma conserva anche la sovversiva impudenza di ammiccare al nostro indirizzo mentre ci inganna sapendo di farlo.

“Fleabag” è in definitiva una piccola storia d’amore che con cinica dolcezza offre un ritratto femminile potentissimo. In questa serie lo sferzante umorismo da stand up comedy si fonde con il dramma e insieme costruiscono un viaggio dell’eroina scevro da stereotipi o facili retoriche. La Waller-Bridge affronta Dio e la penetrazione anale con la stessa corrosiva libertà, ironizzando più volte su quanto la sua alter ego si reputi una cattiva femminista pur senza mai per questo perdere occasione di deridere le dinamiche sessiste e patriarcali con cui essa deve fare i conti. Tutti i personaggi maschili della serie sono infatti tremendamente egoriferiti, inetti o traditori e ognuno di essi finisce per essere ridicolizzato o spogliato del potere che possedeva in partenza. Tutti tranne, non a caso, il prete interpretato da Andrew Scott, personaggio grazie al quale Fleabag farà in tempo a scoprire il vero amore e la cura verso se stessa prima dell’ultimo amaro saluto in camera. Tramutare la rabbia in scherno e il dolore in rinascita, mostrando con leggerezza la tragica comicità dei rapporti umani: “Fleabag” ci è riuscita in pieno, irridendo fino a commuovere, grazie soprattutto alla folgorante bravura della sua autrice.

Andrea Tiradritti

Roma, 24 anni, Università degli Studi Roma Tre

Motivazione

L’autore padroneggia il ritmo del saggio, fornisce al lettore le informazioni necessarie a comprendere la natura del racconto, la sua portata innovativa e il talento della protagonista-autrice. Approda infine a una interpretazione personale del dispositivo e la motiva con un linguaggio chiaro senza indulgere in voli pindarici.

Per aver saputo presentare, con una scrittura scorrevole ed un lessico preciso e pertinente, la storia ed i personaggi, analizzando con completezza la figura di Fleebag e dimostrando una ottima conoscenza dell’autrice e della tecnica di regia. Ha inoltre saputo mettere in giusta evidenza l’aspetto fondamentale del dialogo della protagonista con lo spettatore.

Bella! Che altro dire?!

La quinta stagione

In un villaggio rurale delle Ardenne l’inverno non muta più in primavera. I canti dei galli sono striduli, i campi inaridiscono, le mammelle delle vacche si prosciugano e la comunità un tempo gioviale e pacifica si riscopre giorno dopo giorno sempre più cattiva, in collera e assediata da un nemico invisibile. Come in un racconto di Saramago, “La quinta stagione” di Peter Brosens e Jessica Woodworth mette in scena la rovinosa dissoluzione di un’unità apparentemente inscindibile. Se lo scrittore premio Nobel immaginò un paese in cui più nessuno degli abitanti morisse a causa della scomparsa della morte, Brosens e Woodworth sembrano invece narrare la completa sparizione del sano rapporto fra l’uomo e la natura, preconizzando la tremenda vendetta di quest’ultima nei confronti del primo. In entrambi i casi un microcosmo simboleggia tutta l’umanità e l’osceno si manifesta come forza concreta in grado di sovvertire l’intero processo dell’esistenza sulla terra.

Il film mostra senza spiegare, affidando a un suggestivo flusso di immagini il compito di evocare la precarietà dell’essere umano rispetto a un mondo che non governa e che implacabile gli si ribella contro. Il castigo assume quindi gli inquietanti tratti di un’ancestrale maledizione: ciò che prima donava la vita adesso diffonde la morte e rende imminente la catastrofe. Se già Michael Haneke nel suo “Il nastro bianco” aveva rappresentato lo sconvolgimento dei costumi di un piccolo villaggio a causa di una minaccia misteriosa e funesta, è con “Dogville” di Lars von Trier che il film sembra condividere l’anima di fondo. La spoglia e claustrofobica teatralità di quest’ultimo assolve, seppur in maniera opposta, la stessa funzione che nell’opera del duo belga-americano è svolta da un fitto eco di rimandi e simbolismi: mostrare il progressivo abbrutimento della società di fronte al pericolo, dischiuderne la furia e quegli istinti più bassi che la conducono all’intolleranza verso lo straniero, additato come colpevole della sciagura e per questo meritevole di essere punito affinché l’ordine sia ristabilito. La cieca violenza che si abbatte sul personaggio dell’apicoltore nomade e sul suo figlio disabile segna l’ultimo disperato tentativo da parte della comunità di arginare il male, invocando la sua espiazione attraverso l’uso di riti e sacrifici ormai del tutto inadeguati a dare un senso all’irrazionale che l’ha colpita. In questo contesto non è certo un caso che gli unici a prendere le difese dell’uomo saranno Alice e Thomas, due adolescenti del villaggio che nella loro parabola amorosa racchiudono l’intera vicenda del film, la sua desolata poesia e le sue imperscrutabili pulsioni.

La quinta stagione è perciò anche l’ultima, quella in cui l’essere umano sconta la sua arroganza e invece di redimersi affonda ancor più nella colpa che lo sporca. È proprio la natura di tale peccato a rimanere oscuro e a dover essere inteso dallo spettatore: punizione divina o inevitabile contrappasso? Più che interrogarsi sulla sua origine Brosens e Woodworth riflettono sulle conseguenze di una condotta irresponsabile e destinata al disfacimento. Un’ombra funerea accompagna la visione di quest’opera straniante e avvolgente, capace di affascinare e destabilizzare grazie a uno stile enigmatico, audace e profondamente autoriale. La grottesca ironia dei primi minuti lascia presto spazio al dramma e il sorriso si serra in smorfia al presagio di un futuro che potrebbe essere dietro l’angolo e del quale corriamo il rischio di accorgerci quando ormai sarà troppo tardi. La terra ci seppellirà, lì dove cadono gli alberi e soffrono gli animali l’amore non potrà sopravvivere. “La quinta stagione” è al contempo un allarme e una speranza, un film che trafigge il problema e ci invita chini a raccoglierne i pezzi.

Andrea Tiradritti

Roma, 24 anni, Università degli Studi Roma Tre

Motivazione

Per aver saputo ben organizzare il testo, chiaro, fluente e incalzante. Ben evidenziato il contesto e l’atmosfera, senza pedanti riassunti: l’aria di catastrofe e la trasformazione degli abitanti del villaggio da semplici contadini a dannati.
Buono l’utilizzo dei paralleli e dei riferimenti cinematografici, da Samarago a Lars von Trier. La questione ambientale presente nel film viene colta e sufficientemente rappresentata. Non dà soluzioni, ma pone domande al lettore e stimola riflessioni sul rapporto tra uomo e natura, sul rapporto di causa ed effetto tra azioni dell’uomo e reazione dell’ambiente naturale.

Scrittura piacevole e scorrevole, interessante la forma. La trama non è mai svelata, tuttavia si evince lo sviluppo del film dal racconto dei caratteri dei personaggi. Citazioni e riferimenti cinematografici sono sempre pertinenti e d’aiuto alla comprensione dell’intenzione degli autori del film. Una buona critica sofisticata: un interessante confronto per chi ha già visto il film, invitante per chi è alla ricerca di un film ancora da vedere.

Fleabag

Fleabag e la disarmante comicità del reale

Orson Welles ci ha insegnato che “Un lieto fine dipende da dove interrompete la vostra storia”: assioma, questo, che ben si presta a compendiare le vicende della scanzonata protagonista di Fleabag. Originariamente nata come pièce teatrale, la serie televisiva, prodotta dalla Two Brothers Pictures con un accordo di co-produzione con Amazon Studios, è frutto del genio creativo della brillante Phoebe Mary Waller-Bridge, che interpreta l’omonima Fleabag, il personaggio principale della serie. Articolata in due distinte stagioni dalle contrapposte direttrici ma con un costante sottotono di ironia e sarcasmo, Fleabag racconta la storia di una donna che instancabilmente cerca il suo posto nel mondo, combattendo ogni giorno contro le frustrazioni di una vita segnata da relazioni vacue e morbose. Eroina tragicomica di una realtà drammatica e ripetitiva, Fleabag è una giovane donna che arranca ogni giorno nella sua burrascosa esistenza, caratterizzata da una generale, umoristica rassegnazione nei confronti delle proprie sfortunate vicende. Problematico è, infatti, il suo rapportarsi con la realtà in cui vive: orfana di madre, gestisce da sola una caffetteria nel centro di Londra ed è costretta a condividere il suo quotidiano con una famiglia disfunzionale, composta da un padre succube, una sorella perfezionista e competitiva e una matrigna ostile e sfacciata. Disarmante e spietata nella sua ironia, Fleabag – complice la bassa autostima e la tendenza ad essere attratta da relazioni tossiche e non durature – trova rimedio alle sue frustrazioni coltivando una vita sessuale instabile e disinibita. Sottofondo costante di tutti gli episodi è, inoltre, l’esperienza del lutto provocato dalla morte della migliore amica, che ci viene raccontato con flashback improvvisi e brutali e a cui – lo capiremo più avanti – la protagonista non è del tutto estranea.
Ciò che tuttavia rende questa serie un prodotto di straordinaria fattura non è tanto il dramma quotidiano che fa da cornice alla realtà di Fleabag, bensì il modo con cui la tragica esperienza della vita di tutti i giorni viene narrata. La protagonista, infatti, ci coinvolge nelle sue vicissitudini fin dal primo fotogramma, abbattendo violentemente la quarta parete e facendoci spettatori e co-protagonisti del suo lento e inesorabile declino. Perché in effetti è questo il percorso tracciato dalla prima stagione di Fleabag: una vera e propria catabasi, una descensio ad inferos, che si compone di violenti litigi, rapporti sessuali occasionali, tentativi di riconciliazione andati in frantumi, relazioni malate e reiteranti. All’interno di queste variegate (dis)avventure, lo spettatore diventa l’unico vero confidente con cui la ragazza è in grado di dialogare e che partecipa, alla pari della protagonista, alle sue vicende. Il più grande talento di Fleabag è però quello di non lasciarsi mai abbattere dai traumi quotidiani: spietata, disincantata e canzonatoria, la trent’enne riesce a sgualcire il tessuto del dramma strappando al pubblico un sincero sorriso anche nei momenti più tragici. La serie è infatti a tutti gli effetti un dramedy, in cui le vicende drammatiche rappresentano dei traumi devastanti e quelle comiche dei racconti mirabilmente spassosi. Il bisogno di sentirsi desiderata spinge Fleabag alla ricerca di relazioni abusanti, che la soddisfano solo nella misura in cui le rimandano l’idea di poter essere sempre considerata sessualmente apprezzabile da parte degli uomini che frequenta: ma questa sottile debolezza psicologica, figlia e compagna del suo senso di colpa nei confronti dell’amica tradita, ci viene sempre nascosta dal disinibito sarcasmo con cui la donna vive ogni aspetto della sua esistenza, anche quelli più intimi e pruriginosi. Il sesso, provocatoriamente ostentato senza filtri, assurge a rango di tassello fondamentale nel grande mosaico della serie, che ha come prima istanza quella di smentire i banali lieto fine, le storie familiari troppo costruttive, i vissuti individuali troppo perfetti. Centrale è inoltre la grande questione della femminilità, che diventa una delle riflessioni più accorate della serie: perfetta disamina della vita di una donna adulta nella realtà contemporanea, Fleabag scardina prepotentemente lo sfondo idilliaco a cui i grandi film rosa ci hanno sempre abituati e, squarciando il velo del perbenismo, ci dimostra quanto essere buone madri, ottime figlie, emancipate donne single, orfane devote, sorelle presenti e migliori amiche fedeli non è sempre possibile; in alcuni casi, anzi, appare quasi deprecabile.
Dissacrante è quindi la parola d’ordine con cui Fleabag ostenta in tutti gli episodi il vessillo della veridicità: una vita quotidiana che finalmente ci viene presentata anche nei suoi lati più deteriori, nelle sue manifestazioni più tragiche e meschine. Anche la seconda stagione, che rappresenta il difficile cammino di rinascita della protagonista, è avulsa da logiche di “camomilla cinematografica”: allo spettatore è lasciato l’arduo compito di osservare il sottile dipanarsi della sensuale storia d’amore tra Fleabag e “Il Prete” e il suo inevitabile arrestarsi in un procrastinato happy ending che, anche stavolta, non viene del tutto accordato alla protagonista. L’unico uomo che infatti comprende pienamente le logiche profonde che muovono l’animo di Fleabag, e per questo anche l’unico in grado di intercettare il gioco tramite il quale la ragazza ci rende coprotagonisti della sua storia, è un uomo impossibile, che la ragazza, pur attratta dal misterioso fascino dell’abito talare, non potrà mai avere per sé. La magistrale icasticità della figura di Fleabag la rende l’incarnazione perfetta della microstoria quotidiana di ognuno, sempre volta alla ricerca di un’identità più completa e definita: quella di Fleabag non è mai un’accettazione passiva della realtà, ma una comprensione matura e talvolta dolcemente rassegnata del suo senso più profondo e prismatico.
Costellata da una disarmante ironia, la serie tv rappresenta insomma l’insaziabile ricerca di senso che accompagna il vissuto di ognuno; un vissuto che risulta tanto più aderente alla realtà quanto più ci appare buio, scoraggiante, senza redenzione. Il vero, affascinante riscatto di Fleabag sta proprio nel suo raccontarsi disastrata, scanzonata, sarcasticamente protagonista delle storture di una vita nel suo farsi e nel suo disfarsi, colma com’è di possibilità da cogliere o da lasciar andare; una vita che in fondo non ci è mai apparsa così tanto realistica, autentica, vera.

Daphne Natalia Musca

Roveleto di Cadeo (Piacenza), 23 anni, Università degli Studi di Parma

Motivazione

Brillante disamina di una serie pluri-premiata e di grande successo, che non trascura né gli aspetti stilistici (il continuo ammicco della protagonista al pubblico, il montaggio concitato), né una scrittura che induce spesso al sorriso, ma tratteggia al contempo una personalità sfaccettata e contraddittoria.

Miglior recensione-tweet

Favolacce

Villette a schiera di una assolata periferia romana, famiglie di orchi che allevano bombaroli in erba istigati da un professore nichilista a farla finita con la biologia. Formiche per spettatori entomologi. Ma sono solo favolacce, vero?

Benjamin Prevosti

Montemarzino (Alessandria), 25 anni, Università degli Studi di Pavia

Motivazione

Per l’eleganza della scrittura, chiara ma con riferimenti puntuali che sottintendono una riflessione più profonda. Per la capacità di riassumere in poche immagini efficaci gli elementi chiave del film, chiudendo il tweet con una domanda retorica che scioglie con intelligenza il sottotesto del titolo.

La recensione restituisce il disagio che provoca il film. La dissezione di alcuni tratti emblematici dell’opera rende giustizia alla glaciale favola nera dei Fratelli D’Innocenzo, invogliandone un’immediata visione.

Il breve tweet offre una sintesi perfetta del film, mostrando una notevole capacità di evidenziare in una sola frase gli elementi precipui del racconto insieme con la loro valorizzazione nell’ambito della visione offerta dai due registi. La seconda frase circoscrive lo stile del film e le modalità di coinvolgimento dello spettatore. La terza traduce bene l’inquietudine generata dalla visione del film stesso.

Miglior recensione standard

Ema

Muovendosi libera, come attraverso dei passi di danza a suon di reggaeton, Ema vaga per le strade di Valparaíso alla ricerca di qualcosa che sfugge tanto a lei quanto allo spettatore. Seguendo la sua azione sinuosa e decisa, che alterna violente vampate erotiche a inattesi eccessi di furia piromane, ciò che ben presto emerge è il tentativo disperato di lasciarsi alle spalle il peso di una perdita lacerante. Larraín racconta il dramma di una maternità conquistata e poi dolorosamente perduta, ma ancora una volta la via perseguita non è quella più diretta e convenzionale. Il regista cileno conferma il proprio rango di narratore imprevedibile, prendendo una storia che, visti gli elementi tematici coinvolti, avrebbe potuto evolversi in un denso melodramma e che invece secondo la poetica di questo estroso autore assume la forma un’esperienza sensoriale inclassificabile. Sul corpo della folgorante Mariana di Girolamo, al suo esordio, Larraín setta il tono di quello che si palesa per gran parte della sua durata come selvaggio apologo sull’autodeterminazione femminile. Ma con Ema nulla è come sembra, ed il mirabolante gioco di attese tradite e bruschi cambi di direzione preclude la costruzione di un netto percorso logico. La sua forza, tuttavia, risiede proprio in questa indole anarchica in cui l’accostamento di immagini e suoni trabocca fino a farsi pura sinfonia visiva.

Andrea Pedrazzi

Corteno Golgi (Brescia), 24 anni, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

Motivazione

Per la capacità di distillare, da un’opera estremamente complessa e stratificata, una lettura limpida ma non rigida, che restituisce una possibile interpretazione del personaggio centrale senza piegarlo a chiavi riduttive.

La non facile impresa di decodificare l’ultima opera di Larraín si può considerare riuscita perché affrontata con le stesse armi del maestro cileno, con la valorizzazione di una messa in scena ondivaga fino all’anarchia e la costruzione di un’indimenticabile protagonista femminile, bizzarra quanto imprevedibile.

In una recensione breve, riesce a condensare gli elementi principali della drammaturgia che il film mobilita in maniera efficace e suggestiva, senza indugiare troppo in tentativi di descrizione prosaica di un’opera tutt’altro che convenzionale dal punto di vista narrativo. Il giudizio sui valori espressivi dell’opera viene espresso con discrezione ed efficacia, senza rinunciare ad assumere un punto di vista critico puntuale e misurato.

Miglior recensione “green”

First Reformed

“Un giorno o l’altro verrà un altro diluvio universale, e ripulirà le strade una volta per sempre”, così recitava Travis Bickle, il giustiziere protagonista di Taxi Driver (1976), in uno dei suoi monologhi. Sono passati oltre quarant’anni da quando Paul Schrader scrisse la sceneggiatura del film, ma First Reformed dimostra che le tensioni apocalittiche che percorrevano il personaggio di Travis non sono mai defluite dall’autore.
Non che il cinema di Schrader non sia di per sé provocatorio: film come The Canyons (2013), Cane mangia cane (2016) e Dark (2017, la versione rimontata del disconosciuto Il nemico invisibile), solo per citare alcuni dei suoi ultimi lavori, lo dimostrano. Eppure First Reformed riesce ad essere ben più che una provocazione: è un dialogo tra cinema contemporaneo e storico, tra trascendenza e morte, tra giustizia e vendetta, tra uomo e natura.
La trama sembra essere l’ibrido perfetto tra Taxi Driver, Ordet e Il diario di un curato di campagna: un pastore protestante di New York, Ernst Toller, vive uno shock quando un’attivista della sua parrocchia si suicida. Quest’ultimo era un eco-rivoluzionario, progettava un massacro con un giubbotto esplosivo al fine di uccidere alcuni magnati dell’industria carboniera. L’attivista li accusava di stare innescando una catastrofe climatica. Toller scova il giubbotto esplosivo ed entra in una spirale di vendetta per una società corrotta, marcia, inquinata. Il tutto coniugato a un fetore sempre più intenso di morte (dovuto a un cancro allo stomaco, in maniera analoga al protagonista de Il diario di un curato di campagna) che lo porterà a un passo dal commettere il massacro. Prima che ciò accada però, si verifica un ultimo e insperato atto di amore. Un miracolo laico, non religioso, proprio come il bacio che chiude Ordet, il controverso capolavoro di Carl Theodor Dreyer. Basterà questo a prevenire l’Apocalisse di Toller e del genere umano?
Schrader solleva domande spinose: può un Dio accettare che la Natura venga distrutta e l’uomo spazzato via? E’ più peccaminoso essere ignavi di fronte al cambiamento climatico o è più grave essere carnefici di una manciata di peccatori per il bene mondiale? O il peccato più grave è non concedere all’umanità la possibilità di redenzione?
La consistenza del film è tangibile fin dal nome del protagonista: Ernst Toller. Non un caso di omonimia con il rivoluzionario tedesco che, nella prima metà del Novecento, rifletté sull’etica del pacifismo in tempo di guerra. Soprattutto rifletté sulla separazione tra etico e politico, laddove il primo rappresenta gli ideali umani e il secondo è la manifestazione del popolo (che sovrasta necessariamente l’individuo). Due tematiche che costituiscono l’ossatura di First Reformed e che nel film vengono intrecciate nella discussione ecologica.
Non è la prima volta che Schrader affronta temi simili: lo stesso Taxi Driver problematizzava il rapporto tra individuo e comunità, tra determinismo e rivoluzione, in un ambiente distopicamente urbanizzato. Se risaliamo ancora più in là nel tempo, notiamo che i temi erano già presenti nella sua tesi di laurea del 1972, pubblicata come saggio dal titolo “Il trascendente nel cinema”. In esso il regista compie un’analisi sullo stile trascendente nell’arte figurativa: troviamo in nuce le tematiche che costituiranno la sua poetica, tra cui il rapporto tra essere umano e la natura, l’ambiente.
First Reformed è così l’estrema conseguenza di una riflessione lunga decenni, e che mai come in questi anni ha acquisito urgenza e centralità: i dilemmi di Toller sono un’emanazione folle ed esasperata di idee con cui è necessario confrontarsi, con cui è necessario scendere a patti. La “Prima Riforma”, in questo senso, non è quella della Chiesa ma quella dell’Umanità. Una nuova umanità per un nuovo ambientalismo, che non deve seguire una traiettoria apocalittica ma una vena di misericordia e speranza, proprio come quella che Ernst Toller accetta nei suoi ultimi estatici secondi.

Alessandro Tranchini

Domodossola (Verbania), 23 anni, IULM

Motivazione

Per aver dimostrato una buona conoscenza della cinematografia del regista, con paralleli e rimandi ben strutturati e coerenti, ben evidenziando il conflitto tra la dimensione intima della storia del protagonista e quella pubblica e “politica”, imperniata sul contrasto al sistema sia religioso che istituzionale.

La questione ambientale viene ben evidenziata sia attraverso le numerose domande ed interrogativi sul futuro del nostro pianeta, sul ruolo delle istituzioni religiose, sulla vita e sul significato delle scelte personali della parte centrale del testo sia nella conclusione.

Interessante l’approccio che percorre l’intenzione dell’autore del film dalle sue prime opere fino al film in oggetto. Attenzione però ad una scrittura in alcuni tratti contorta e leziosa.

L’autore sa stabilire connessioni con l’opera complessiva del regista e con il cinema che lo ha ispirato. Inserisce il film nel contesto che lo ha prodotto, dà conto della religiosità di Schrader e arriva a una conclusione coerente, ma personale.

Alle prese con un film non facile, l’autore se la cava egregiamente, dimostrando una frequentazione sistematica e non superficiale del cinema di Paul Schrader. I rimandi ai film precedenti dell’autore sono precisi, la continuità tematica è messa bene in luce, le citazioni di altri film e altri personaggi non gratuite ed estemporanee (Dreyer, Toller). Il che si traduce in una leggibilità della recensione che favorisce la comprensione del lettore e la sua curiosità, avvicinandolo al film senza necessariamente proporne un’interpretazione forzata o estrosa.

Miglior saggio breve

Hill House

“L’incubo di Hill House”, il caposaldo della letteratura horror di Shirley Jackson, era un racconto di fantasmi stratificato e audace, che dietro la facciata del soprannaturale celava temi come la malattia mentale e il dissidio tra superstizione e razionalità. Un adattamento cinematografico fedele all’opera letteraria c’era già stato, ed era diventato un cult: “Gli invasati”, diretto da Robert Wise, aveva riproposto le notevoli intuizioni narrative della Jackson, lavorando efficacemente sul topos della casa infestata. Più di cinquant’anni dopo il classico di Wise, il progetto seriale portato avanti da Mike Flanagan presenta caratteri strutturali profondamente differenti, tanto dal film quanto dall’opera originaria, e tuttavia prende le mosse proprio da un elemento di continuità inalienabile: la casa, la leggendaria Hill House, il paradigma in cui confluiscono decenni di romanzi e film incentrati sui luoghi stregati. Perché fino dai minuti iniziali della serie la domanda che sorge intorno ai fatti che prendono corpo è il medesimo che stava alla base del romanzo della Jackson, come anche del film di Wise: Hill House ha la fama di essere il luogo più infestato d’America, ma lo è davvero?
Per rispondere a questo interrogativo Flanagan sceglie di raccontare le vicende dei Crain, una famiglia numerosa il cui destino è stato segnato in modo indelebile da alcuni mesi trascorsi all’interno della casa. Proprio la struttura del racconto, il modo in cui allo spettatore vengono progressivamente forniti i frammenti per ricostruire il quadro della storia, costituisce uno dei principali elementi di interesse della serie: il regista adotta infatti una duplice prospettiva temporale, attraverso la quale vengono osservati, in parallelo, i mesi trascorsi dai Crain all’interno di Hill House e le disastrose ricadute che, a trent’anni da una misteriosa fuga dalla casa, l’esperienza ha avuto sui membri della famiglia.
Al racconto già sdoppiato in due linee temporali Flanagan affianca inoltre uno dei vari punti di forza offerti dall’ampiezza del racconto seriale: la facoltà di trattare ogni vicenda e ciascuna individualità in modo cubista, affrontando la realtà da prospettive divergenti. La vicenda dei Crain si struttura dunque mettendo insieme, episodio dopo episodio, i singoli traumi e le diverse prospettive dei componenti della famiglia, proponendo interpretazioni spesso inconciliabili dei medesimi fatti. Così, ad esempio, secondo la visione razionale e scettica di Steven – il fratello maggiore, che ispirandosi alle disavventure dei Crain ha costruito una fortunata carriera letteraria– la fuga da Hill House altro non è se non un’esplosione di follia collettiva, dovuta ad una sorta di predisposizione ereditaria alla malattia mentale interna al nucleo familiare. Agli antipodi si colloca invece la lettura dei fatti proposta dal padre, Hugh, che per l’intero arco temporale coperto dalla serie crede fermamente nella natura malsana di Hill House, reale responsabile del suicidio della moglie, Olivia, avvenuto durante l’ultima notte trascorsa nella casa.
Se lo scontro tra il figlio maggiore e il padre è uno degli assi portanti del racconto, non risultano comunque meno strutturati i personaggi dei fratelli minori, chiamati, ciascuno a suo modo, ad elaborare il trauma della permanenza ad Hill House e della morte della madre. Dedicando un episodio all’esperienza privata di ogni personaggio, il regista traccia il profilo di una famiglia slegata e animata da continue tensioni, i cui componenti conservano, seppur inconsapevolmente, le ferite di un’esperienza soprannaturale. Passiamo quindi dalla secondogenita, Shirley  – proprietaria di un’impresa di onoranze funebri, interamente votata alla cura dei defunti, dai quali cerca di allontanare le tracce della morte – alla figlia di mezzo, Theo, in grado di percepire le emozioni delle persone attraverso il tatto. Ma ad aver accusato maggiormente il trauma di Hill House sono senz’altro i due fratelli più piccoli, i gemelli Nell e Luke. Questi ultimi, particolarmente legati alla madre, affrontano la vita adulta combattendo con la tossicodipendenza, nel caso di Luke, o, come accade a Nell, con spaventose visioni e paralisi notturne.
L’aspetto più affascinante della serie risiede, forse, proprio nella sceneggiatura, estremamente accurata nel delineare i personaggi e ricca di suggestioni estetiche che travalicano il testo della Jackson e riecheggiano elementi de “Il giro di vite” o de “La caduta della casa degli Usher”, testi a loro modo imperniati sul complesso rapporto tra una dimora e i suoi abitanti. Ciò su cui la narrazione di Flanagan indugia maggiormente è infatti la caratterizzazione della casa, che da semplice luogo di passaggio evolve in un’entità vivente, un corpo affamato pronto a nutrirsi degli esseri che si trovano al suo interno. Al contempo la grande dimora decadente, vessata dalla muffa e dai temporali, sembra essere il doppio della famiglia Crain stessa, destinata ad un lento disfacimento e colpita da continue sventure, nonostante gli instancabili sforzi di Hugh di tenerla insieme.
L’intero racconto risulta calato in un’atmosfera ovattata e di profonda malinconia amplificata dal cromatismo rarefatto delle immagini, sempre impostate su gradazioni di grigio e blu. Addirittura le tonalità e i meccanismi tipici dell’horror  – che pure un autentico regista di genere come Flanagan maneggia con abilità – appaiono smorzati, trattenuti e disciolti in un ampio racconto erede delle narrazioni orrorifiche romantiche, che subordinavano lo spavento più immediato alla meditazione intorno al rapporto tra i vivi e i morti. In modo analogo la costruzione di alcuni personaggi, in termini sia visivi che caratteriali, risulta fortemente influenzata da un immaginario ottocentesco: è senz’altro il caso di Olivia, interpretata da un’eccezionale Carla Cugino, la madre sempre oscillante tra dolcezza e nevrosi, perennemente avvolta da lunghi abiti di velluto, l’incarnazione dell’eroina tragica e sofferente da racconto gotico. E in qualche modo anche il triste arco narrativo di Nell, eternamente incatenata alla casa da un vincolo atemporale e metafisico, non appare troppo lontano da certe intuizioni di Poe o di Henry James. Questo a sottolineare ulteriormente come l’interesse di Flanagan sembri rivolgersi con particolare intensità proprio alla complessità e alla persistenza dei legami: legami tra persone e luoghi, legami tra familiari, vincoli che in modi misteriosi attraversano e modificano la linearità del tempo. In fondo, una volta ricostruite e chiarificate le oscurità della storia dei Crain, tutto risulta in definitiva incentrato sulla dolorosa separazione tra i vivi e i morti, ovvero sulla distanza che separa Olivia e Nell – entrambe fagocitate da Hill House – dal resto della famiglia.

Giovanni Ceccatelli

Firenze, 22 anni, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

Motivazione

Per il rigore e la ricchezza dell’analisi, chiara e scritta bene, a parte qualche piccola svista formale, che però si consiglia all’autore di evitare in futuro per non penalizzare il valore complessivo dei suoi testi (la forma è la sostanza, e la sostanza è la forma: meglio rileggere due volte, a distanza di tempo).

Analisi puntigliosa e condotta in maniera equilibrata, in grado di rendere conto della complessità di sviluppo narrativo e personaggi, con suggestioni interpretative non banali e scontate che possono invogliare il lettore a scoprire la serie, o ad approfondirne la fruizione. Evidente la buona conoscenza del genere di riferimento, che aiuta il critico a mettere in prospettiva il lavoro del regista.

Targa Enrica Prati

Jojo Rabbit

La versione tedesca di “Heroes” di Bowie in sottofondo e un bambino fanatico di Hitler che balla con una ragazzina ebrea. Taika Waititi riesce a rendere quest’assurdità realtà, in un film che oscilla tra comicità e tragedia alla velocità di un battito di tacchi.

Clara Vullo

Piacenza, 22 anni, Università degli Studi di Trento

Motivazione

Nel tweet l’autrice lascia intuire il tipo di storia (romanzo di formazione ambientato nella Germania nazista) attraverso la descrizione essenziale dei personaggi; coglie il tono del film e evidenzia lo straniamento dovuto alla dimensione surreale alla base dell’opera. Con uno stile formale efficace, senza fronzoli e mai sopra le righe.

 

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