Premio Cat 2019 – Vincitori

Premio Cat 2019 – Vincitori. Dopo un lavoro di selezione preliminare a cura di Cinemaniaci, la Giuria del Premio Cat 2019 (Claudio Bartolini, Barbara Belzini, Nanni Cobretti, Irene Dionisio, Ilaria Floreano, Mauro Gervasini, Enrico Magrelli) ha concluso la valutazione dei testi in gara nel contest intitolato al giornalista e critico cinematografico piacentino Giulio Cattivelli.

La serata delle premiazioni si è svolta giovedì 30 gennaio 2020 alle ore 21.00 presso lo Spazio Rotative dell’Editoriale Libertà in Via Benedettine 66 a Piacenza in presenza dei vertici di Libertà e della Fondazione di Piacenza e Vigevano. La registrazione dell’evento è stata trasmessa dalla televisione Telelibertà nei giorni seguenti.

Di seguito le recensioni premiate con le relative motivazioni. Oltre ai quattro testi premiati per ciascuna sezione del concorso, ci sono altri riconoscimenti: due menzioni speciali e la targa Enrica Prati.

 

Premio Cat 2019 – Terza Edizione

A 100 anni dalla nascita di Giulio Cattivelli

 

Menzioni speciali

 

MENZIONE 1

Testo
Titolo del film: Joker [ sezione: Recensione-tweet ]

Sull’autobus un uomo ridendo porge un biglietto a una donna infastidita. “Scusate, ho una malattia”, e continua a ridere.
Ride e ride ancora. Ride così forte da scatenare la rivoluzione.
In sala però c’è silenzio, è un film così denso che non c’è niente da ridere.

Motivazione

Per aver colto perfettamente il senso del film pur senza descriverlo, “sentendo” la reazione della sala.

Partecipante

Enrico Caroli Costantini
Bologna, 25 anni. Università di Bologna

MENZIONE 2

Testo

Titolo del film: C’era una volta a… Hollywood [ sezione: Recensione standard ]

Cinema che parla di cinema, interpreta ed esalta il cinema. Questo è tutto il nono film di Quentin Tarantino, C’era una volta ad Hollywood, un sipario dorato su un mondo che sembra chiudersi, ma anche una finestra luminosa su ciò che si può ancora scoprire. Cosa succede quando un regista si spoglia di tutti gli elementi che esteriormente lo avevano caratterizzato ed esaltato tra la critica ed il pubblico – mix di violenza e derisione, dialoghi ad effetto, ritmo dell’azione martellante e psicologicamente invasivo? Può ancora definirsi tale, o l’effetto che si crea è così spiazzante da determinarne l’insuccesso? C’era una volta a Hollywood è un film difficile, non per la profusione di frammenti di cultura pop e per la trama di personaggi e di eventi intessuta a livello profondo della narrazione, ma per il semplice fatto che dichiarare amore per il cinema vuol dire, a volte, svuotare e riempire, ricominciare da capo, mischiare tutte le carte in tavola. In quest’ottica, l’artificiosità diventa sperimentalismo all’ennesima potenza, il ritmo degli eventi non è più solo stravolto ma psicologico, così da consentire interventi della storia sulla Storia, la ricostruzione minuziosa delle vicende di attori e registi sullo sfondo dell’industria cinematografica del 1969 è la parabola di come, all’alba degli anni Settanta, si costruiva un’ emozione. O un film, che è la stessa cosa.

Motivazione

Film ben inquadrato non solo nei contenuti, ma anche nello stile e nel percorso del suo autore.

Per la capacità di utilizzare l’opera cinematografica come grimaldello per sollevare questioni sul cinema a largo spettro. E per aver toccato, pur nei limiti di battiture di una recensione, tutti centri nevralgici di un film di non facile lettura.

Perché denota una buona conoscenza della produzione del regista e ciò consente di leggere il film all’interno di una cornice più ampia e strutturata. Buona capacità di sintesi che restituisce la produzione precedente e fornisce un metro di paragone per il film recensito, restituito con un elenco di caratteristiche efficace ed evocativo. Propone una lettura interessante dell’opera e una chiusura suggestiva.

Partecipante

Arianna Gazzola
Piacenza, 24 anni. Università Cattolica del Sacro Cuore

 

Targa Enrica Prati

 

Testo

Titolo del film: Ossessione [ sezione: Saggio breve ]

Potente manifesto di un’energica frattura nei confronti del cinema italiano del regime, “Ossessione”, film del 1943 diretto da Luchino Visconti, rappresenta la più audace manifestazione di quella tendenza al realismo che il cinema e gli intellettuali italiani dell’epoca tanto auspicavano, in seno ad un lento ed inarrestabile sgretolarsi del partito fascista. “Ossessione” compare sullo scenario politico e culturale degli anni ’40 come uno dei prodotti cinematografici più rivoluzionari che il cinema italiano abbia mai conosciuto, proclama di quello che sarà poi a tutti gli effetti definito come il “neorealismo italiano”, una delle più potenti armi di rinnovamento sociale del panorama culturale internazionale: come lo stesso Luchino Visconti dichiara in un’intervista del 1962 al settimanale L’Europeo, “Con Ossessione, venti anni fa, si parlò per la prima volta di neorealismo”.
Durante il periodo fascista, la relativa autonomia dell’industria non rendeva il cinema italiano immune dalla propaganda: i documentari e i cinegiornali dell’istituto LUCE magnificavano il regime di Mussolini e non mancavano di produrre film esplicitamente fascisti. Il decimo anniversario della fondazione del partito fu infatti celebrato da due opere commemorative, quali Camicia nera, di Gioacchino Forzano (1933), e Vecchia Guardia, di Alessandro Blasetti (1934); le politiche fasciste erano celebrate in spettacoli che glorificavano condottieri del passato, come 1860, di Alessandro Blasetti (1934) e Scipione l’Africano, di Carmine Gallone (1937). Questi progetti culturali elaborati dal fascismo avevano, alla base, la profonda consapevolezza del grande potere sociale e politico rappresentato dall’industria cinematografica, che diventa, nelle mani del regime, uno strumento estremamente proficuo per la creazione del consenso. L’istituto LUCE, già a partire dal 1922, parallelamente alle azioni politiche, intraprende una vigorosa propaganda cinematografica di santificazione e ratificazione delle opere del fascismo. I film del LUCE rappresentavano dei veri e propri veicoli di “amnesia sociale indotta”, tali da depauperare la dimensione sociale della popolazione dimostrando quanto positivamente le politiche rurali e urbanistiche del regime agissero sul territorio italiano: il fascismo realizzò una vera e propria mappatura della geografia italiana, portando le troupes cinematografiche all’aperto e mostrando le grandi innovazioni apportate al territorio italiano. Sul finire degli anni Trenta, però, tra gli intellettuali più giovani cominciarono a delinearsi tendenze antifasciste, che favorirono il sotterraneo proliferare di nuove e innovative istanze artistiche.

È proprio in questo clima che nasce “Ossessione”, un film che scardina tacitamente i canoni morali e sociali imposti dal regime fascista. Tratto liberamente dal romanzo di James M. Cain, Il postino suona sempre due volte, il film segue la passione che conduce un vagabondo e la moglie di un barista ad assassinare il marito di quest’ultima. I movimenti di macchina di Visconti sono articolati come quelli di un film hollywoodiano, ma la messa in scena appare scabra: il dramma è ambientato in una pianura padana che appare povera e battuta dal sole, a dispetto dell’eleganza tipica della produzione italiana dell’epoca, e che ben giustifica la scelta di “Palude” come primo e sottilmente ironico titolo di questo film. Il film risponde all’esigenza di una rappresentazione più fedele e concreta della realtà, che si concede anche lo spazio per un’analisi critica dei problemi sociali contemporanei. “Ossessione” si distacca in questo modo sia dai film irreali del cinema dei telefoni bianchi, sia dalla retorica dei film storici: i personaggi vengono infatti costruiti in modo inedito e numerosi sono gli elementi scandalistici che portano la critica, all’uscita del film, ad essere nettamente sfavorevole.

Il film di Visconti sfrutta i meccanismi dello star system e porta in scena Massimo Girotti, che interpreta il vagabondo Gino Costa, assieme ad una sensuale Clara Calamai nei panni di Giovanna Bragana, la moglie adultera. Colonna portante del film è la straordinaria attenzione che Visconti ripone nell’approfondimento psicologico riservato ai personaggi: la storia torbida, sensuale ed esasperata dei due amanti viene cristallizzata in pochi secondi nel fugace scambio di sguardi che avviene nel momento in cui Gino, sceso dal camion, entra nello spaccio e vede Giovanna al bancone.
L’ispirazione neorealista del film si incarna nella descrizione della vita comune degli individui, una sorta di spaccato sociale del mondo piccolo-borghese di età fascista. L’intero film si innesta sul tragico dualismo costituito dal conflitto realtà-sogno: atmosfere cupe e toni melodrammatici si alternano a campi lunghi e immagini luminose e ampie, metafora del sogno di un amore eterno che, tuttavia, non troverà lieto fine. In “Ossessione”, infatti, non esiste redenzione: i due protagonisti sono vittime di un amore corrotto e tormentato, che, nella vana aspettativa di trasformarsi in un sogno vivido, avrà come unico risvolto possibile l’omicidio.
“Ossessione” sorprende inoltre per la pervasività degli elementi scandalistici che permeano il film: per la prima volta, infatti, il corpo di un uomo diventa oggetto del desiderio sensuale di una donna, elemento del tutto inusuale per il cinema dell’epoca. L’abbigliamento volutamente succinto di Gino nella prima scena diventa veicolo dell’attrazione femminile e simbolo dell’adulterio che sta per consumarsi. Riveste un ruolo di primo piano, in questo senso, la figura de Lo spagnolo, protagonista di una sequenza che ha portato la pellicola ad essere al centro di numerose polemiche da parte della critica. Inizialmente ideato per rappresentare la solidarietà proletaria, Lo spagnolo incarna, nel film, un tema profondamente scottante per l’epoca, ovvero l’omosessualità: condividendo infatti lo stesso letto nella camera di una locanda, Lo spagnolo, alla luce di un fiammifero, osserva il corpo dell’amico con triste voluttà.

In un’Italia fortemente controllata dalla censura fascista, inserire, all’interno di un prodotto cinematografico, temi quali l’adulterio e l’omosessualità, costituiva un potente segno di rottura rispetto a tutti i canoni etici e morali consolidati nel corso della contemporaneità.
Emblema di un nuovo orizzonte artistico ed espressivo, “Ossessione” costituisce quindi il frutto di un laboratorio culturale che inaugura una stagione innovativa, trasgressiva e controcorrente, in grado di trasformare in modo definitivo il panorama cinematografico internazionale; il film di Visconti è l’antesignano di un cinema in grado di rappresentare la realtà nella sua quotidianità, fatta di complessità e di contraddizioni, e che nutre la nuova speranza, espressa da Mario Alicata e Giuseppe de Sanctis, “che un giorno creeremo il nostro film più bello seguendo il passo lento e stanco dell’operaio che torna alla sua casa”.

Motivazione

La nascita del neorealismo ben raccontata sia dal punto di vista storico che da quello stilistico, a restituire l’importanza di scelte apparentemente secondarie o scontate.

Partecipante

Daphne Natalia Musca
Roveleto di Cadeo, Piacenza. 22 anni. Università degli Studi di Parma

 

Migliore Recensione-tweet

 

Testo

Titolo del film: Joker

 

Tra rifiuti solidi e scarti sociali di una Gotham fredda e incattivita, divampa il Joker di Phoenix. Negli occhi tristi, nella soffocante risata, nella febbricitante nevrosi, nella disturbante e rabbiosa violenza è quanto di più umano, d’origine comic, si sia mai visto al cinema.


Motivazione

Per l’utilizzo evocativo e ritmico delle parole scelte dal critico che sintetizza – senza velleità di esaustività – la pellicola.

Bella scelta di parole per descrivere l’umanità del cattivo.

Partecipante

Luigi Palma
Bari, 23 anni. Università degli Studi di Bari

 

Migliore Recensione standard

 

Testo

Titolo del film: Joker

 

Come i protagonisti di Keaton e Chaplin, Arthur Fleck si muove perennemente in difficoltà in una dimensione urbana che lo sovrasta. Sempre di corsa, mai integrato, agitato da aspirazioni che superano le sue capacità. Il pagliaccio, il freak, oggetto di derisione da parte dei cittadini realizzati di Gotham. La figura creata da Philips e Phoenix racchiude le solitudini autodistruttive scorsesiane e quell’aura di sotterranea malinconia dei grandi comici del muto. Arthur è la continuazione (e deformazione) spirituale del Keaton che sognava di fare il regista di cinegiornali in una New York troppo grande per lui: ambisce a condividere lo schermo con il suo idolo televisivo Murray, per portare una risata sul volto della gente, una risata vera, quel tipo di risata priva di sofferenza che a lui, per condizione patologica, è preclusa. In un film dal nichilismo radicale osserviamo la genesi sofferente del cattivo per eccellenza, Joker, figura sinistra che in un mondo rabbioso e cinico può addirittura essere acclamato dalle folle. Lo scenario è fosco, infiamma lo scontro tra élite e poveri, le armi possono entrare in possesso di chiunque. Nei grandi film comici l’inetto protagonista aveva sempre un’occasione di riscatto: anche questo “king of comedy” avrà un momento di gloria, il pagliaccio riderà davvero, ma sarà una risata tragica.

Motivazione

Interessante parallelo con figure della comicità del passato inserite correttamente nel contesto critico.

Per il tentativo di mettere in relazione il film con la Storia del cinema, trovando un plausibile nesso con l’opera di due grandi pionieri come Keaton e Chaplin e sottolineando i riferimenti all’opera di Martin Scorsese.

Partecipante

Giovanni Ceccatelli
Firenze, 21 anni. Università di Bologna

 

Migliore Recensione Opere prime

 

Testo

Titolo del film: La terra dell’abbastanza

Storia del vissuto e dell’urbano è quella del cinema italiano, di borgate e di rovine, periferie e malavita. Di una grande città, Roma, e i suoi figli dimenticati. Ma che fine hanno fatto i ragazzi di vita del 1962? L’Ettore pasoliniano si è evoluto e ha cambiato volto, ed assieme a lui si è trasformata l’architettura che lo ingloba. Ingegneria dell’esclusione e del martirio, mamma Roma mantiene vivi gli stessi vuoti restringendo i suoi spazi ampi. La lunga distesa di edifici ha preso colore e incornicia un parco giochi decadente, un luogo dove crescere, incontrarsi e sostenersi a vicenda. È quello che fanno, o tentano di fare, Manolo e Mirko, e non sono gli unici; sono in compagnia di altri come Manuel di Dario Albertini o dei personaggi di Claudio Caligari, il cui testamento sembra un monito indirizzato ai due ragazzi: Non essere cattivo.

Difficile non esserlo nella Terra dell’abbastanza, dove l’unico modo per svoltare è approfittare di una sventura; ironia della sorte, è la morte a far nascere una nuova vita. I protagonisti investono un passante, terrorizzati si danno alla fuga. Continuano a trascorrere le loro giornate come se nulla fosse, fino a che il padre di Manolo scopre chi hanno ucciso: è un “infame” ricercato dal clan dei Pantano. Così l’evento nefasto diviene la prima tappa del loro percorso verso il baratro criminale. Una cavità dove la sofferenza è sinonimo di debolezza, nella quale i fratelli D’Innocenzo dicono di volere raccontare “com’è maledettamente facile assuefarsi al male”. La conseguenza dell’abitudine è l’isolamento progressivo, a cui il visivo è complementare attraverso inquadrature ristrette in cui lo sfondo è quasi sempre fuori fuoco.
In campo ci sono soprattutto i volti, principalmente quello di Mirko, su cui sempre più spesso si può leggerne il timore, ombra della sicurezza che stampa sul suo viso. Abbassa lo sguardo per gradi, dagli occhi della madre al fisico della sua ragazza, fino ad arrivare al suo migliore amico, quello di sempre, per poi sfogarsi in un pianto liberatorio e abbandonarsi alle scuse, una di quelle debolezze che avrebbe potuto salvarli. Un gesto naturale dopo un turbinio di atti forzati che ne spazza via tutta la finzione, un gioco di ruoli inconsapevole la cui fine diventa irraggiungibile.
È questo che sono diventati i ragazzi dei sobborghi romani. Orfani di quella madre sottoproletaria che tanto teneva al loro inserimento nella società borghese, sono rimasti soli e hanno invertito le posizioni, sono loro ad essere responsabili dei genitori e a condizionarne le condizioni economiche e sociali. Per resistere al peso di quest’onere, e all’imprevedibilità del futuro, trovano un appiglio in tutto ciò che può garantirgli una parvenza di sicurezza, per quanto instabile, per quanto fittizia. La terra dell’abbastanza ne descrive i comportamenti, e prova ad offrire a questa solitudine sociale una via d’uscita: l’amicizia.

Motivazione

Per la capacità di fondere, in un numero limitato di caratteri, brillantezza espositiva, profondità di analisi e ricchezza di riferimenti contemporanei e non, cinematografici e non.

Perché la scrittura risulta sicura, solo a tratti ridondante, e consapevole non solo del contesto produttivo contemporaneo, ma anche di almeno una parte della storia di cinema italiano che precede l’esordio dei fratelli D’Innocenzo (i riferimenti a Pasolini). È evidente la conoscenza della storia del cinema del passato – che dovrebbe essere il presupposto della critica cinematografica, per permettere di leggere i film non come monadi separate e autosufficienti ma come prodotti di un universo ben più ampio – è un dato attualmente non scontato, eppure fondamentale.

Per l’acutezza e la qualità della scrittura.

Partecipante

Roberto di Matteo
Aversa, 24 anni. Università di Bologna, Citem – Cinema, televisione e produzione multimediale

 

Migliore Saggio breve

 

Testo

Titolo del film: Quarto potere

 

San Francisco 1941, sera del debutto di “Quarto Potere”, ascensore del Fairmont Hotel. Il giovane Orson Welles si ritrova faccia a faccia con William Randolph Hearst, il magnate a cui si rifà la figura di Charles Foster Kane, protagonista della pellicola. «Mi presentai e gli chiesi se gli sarebbe piaciuto venire alla prima», ricorda Welles intervistato da Bogdanovich. Ma Hearst, che aveva ostacolato in tutti i modi l’uscita del film cercando addirittura, secondo la leggenda, di comprarne i negativi per distruggerli, se ne andò in ostinato silenzio. «Charles Foster Kane avrebbe accettato!» aveva ribattuto Welles prima che le porte dell’ascensore chiudessero il sipario su questo assurdo incontro. Se tutto ciò sia accaduto veramente non ci è dato saperlo: quel che è certo è che l’ha raccontato Welles, ossia quanto c’è di più lontano da una garanzia di verità.

L’inutile ricerca del vero, la burlesca ostentazione del falso, il gusto per l’artificio, per il trucco, sono d’altronde i temi cari a Welles che emergono dalla sua poderosa personalità come dai suoi film e, in particolar modo, dall’ormai indiscusso capolavoro “Quarto potere”. Chi al contrario di Hearst avesse la fortuna di vedere il film proiettato, vedrebbe che i primissimi fotogrammi sono neri: il film è iniziato ed è indistinguibile dalla sala buia. Poco dopo, con una rapida dissolvenza, ecco materializzarsi sullo schermo la scritta “NO TRESPASSING”, “non oltrepassare”. Come un monito per lo spettatore la scritta ricorda che lo schermo è altro rispetto al mondo del pubblico: quanto mostra non è reale e non si può raggiungere; ogni tentativo di penetrare dentro quella dimensione, di afferrarla, di crederci, si risolve irrimediabilmente nel rendersi vittima di una burla. Ma è proprio questo ciò a cui mira Welles: burlarsi dello spettatore. Nonostante infatti il primo divieto, grazie anche al rivoluzionario uso della profondità di campo, il film sembra al contrario un continuo invito a scavare dentro lo schermo, oltrepassare la sua superficie bidimensionale e entrare nel gioco, nell’incanto, nella bugia. Così, nella prima scena, la macchina da presa supera l’ostacolo e la scritta “No trespassing” tramite una dissolvenza. Successivamente, tramite una serie di ulteriori dissolvenze, (cominciate, ricordiamolo, dal buio indistinto del primo fotogramma) Welles conduce il pubblico quasi ipnotizzato fino alla finestra della stanza dove Kane sta morendo in assoluta solitudine. Avendo condotto lo spettatore lungo una terza dimensione dentro uno schermo bidimensionale, l’incantatore Welles si presenta fin da subito destreggiando con virtuosismo il suo strumento affabulatorio: il cinema.

Ed ecco cosa vede lo spettatore: con un filo di voce, il magnate Kane, interpretato dallo stesso Welles, pronuncia la parola “Rosebud”, “Rosabella”, e spira. Poco dopo entra l’infermiera. Lo spettatore è dunque l’unico testimone delle ultime parole di Kane, morto in solitudine. Eppure, nonostante non sia possibile oltrepassare lo schermo, comunicare a nessuno dei personaggi del film quanto visto e udito, il fatto che Kane abbia detto “Rosabella” prima di morire è noto a tutti i personaggi del film. Welles si prende gioco del pubblico utilizzando genialmente le potenzialità del mezzo cinematografico, e in particolar modo la capacità del cinema di persuadere che quanto mostrato sia reale, o quanto meno plausibile, o, se non altro, sia avvenuto, così come lo possiamo vedere, da qualche parte, quando qualcuno lo ha immortalato con la macchina da presa. E invece tutto il cinema non è che una grossa bugia, la stessa scena viene recitata infinite volte dagli attori, una volta con la macchina da presa in un punto, a favore di un personaggio, una volta nell’altro, a favore del suo interlocutore, e solo in seguito, alla moviola, viene costruita quella realtà o quella contemporaneità che il pubblico dà per scontata quando vede, ad esempio, un campo e un controcampo. Welles trasporta tutto questo nella diegesi del suo film: lo spettatore che si interroga sul significato della parola Rosabella, che vuole scoprire cosa c’è dietro, oltre lo schermo, è il giornalista incaricato di scoprire la verità. Non a caso il giornalista viene ripreso spesso in controluce, con una siluette quasi confondibile, nella scena del cinegiornale, con quella degli altri spettatori che in sala si trovano più vicini allo schermo. Ecco allora che lo spettatore, trovatosi dentro al film, cerca, come i suoi protagonisti e come lo stesso Welles alla moviola, di ricomporre i pezzi del puzzle, di scoprire una realtà che si dà solo scomodando diversi punti di vista, ora a favore di un personaggio, ora di un altro, ripresi secondo un ordine arbitrario, proprio come accade quando si gira un film. Avviene così la composizione pezzo per pezzo di una interezza inesistente che è tanto poco utile alla ricerca della verità quanto è fruttuosa per il godimento della finzione. «Per me non c’è divertimento più grande che fare un film, e il meglio viene in sala di montaggio quando sono finite le riprese». Confessa infatti Welles a Bogdanovich. E deve essersi divertito molto visto che per questo film ottenne dalla RKO il completo controllo del montaggio, come di tutti gli altri aspetti produttivi, grazie a quello che all’epoca era giudicato essere il contratto più vantaggioso mai offerto da uno studio. E come lo ottenne, se non sfoggiando la dote tipicamente Wellesiana di suscitare confusione circa il limite tra la finzione e la realtà? In seguito al suo spettacolo radiofonico “La guerra dei mondi” infatti, pare che molti ascoltatori, allarmati, fuggirono dalle città, credendo veramente che gli alieni di cui Welles parlava alla radio fossero arrivati negli Stati Uniti. In un suo piccolo film gioiello “F per Falso” (e credo non ci sia bisogno di commentare il nome), Welles commenta così l’accaduto: «In una città del Sudamerica ci fu chi tentò di rifare la nostra trasmissione, ma finì in prigione. Suppongo dunque che io non ho motivi di lamentarmi, io non finii in prigione, ma a Hollywood».

Motivazione

Non è facile scrivere “ancora” del film forse più analizzato e storicizzato di tutti i tempi: l’elaborato trova la sua originalità nella viva voce dell’autore, Orson Welles, così creando un percorso di lettura che parte dalle sue dichiarazioni. Una scelta felice.

Partecipante

Angela Norelli
Roma, 23 anni. Università La Sapienza

 Inoltre, i componenti della giuria Claudio Bartolini e Ilaria Floreano offrono a Angela Norelli, in quanto vincitrice della sezione “saggio breve”, un’occasione professionalizzante presso Bietti Edizioni, partner della terza edizione del Premio Cat, per la collana di cinema Bietti Heterotopia.

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