“Il disprezzo”

Il disprezzo (Le mépris, Francia-Italia 1963, 105’) di Jean-Luc Godard

Tre grossi nomi conferiscono interesse a Il disprezzo: Moravia, autore del soggetto, la protagonista Brigitte Bardot e il regista Jean-Luc Godard. Ma il regista, come apprendiamo dalle cronache di questi giorni, ha sconfessato l’edizione italiana dell’opera, imputando al produttore Carlo Ponti tagli e manipolazioni (oltre alla sostituzione della musica di commento e dei dialoghi) che l’avrebbero resa irriconoscibile. Comunque sia, il ripudio significa che l’autore per primo non è soddisfatto di quanto vediamo sullo schermo: premessa dalla quale sarebbe facile procedere alla liquidazione sommaria di un film per molti aspetti insoddisfacente anche per lo spettatore. Aggiungiamo però subito che anche altri validissimi lavori di Godard (per esempio Fino all’ultimo respiro, o Questa è la mia vita) riuscivano a gran parte del pubblico sconcertanti o irritanti, a causa della provocatoria, intellettualistica strafottenza tipica del giovane regista francese. Per cui sarà meglio, ancora una volta, prescindere dalle reazioni della platea e vedere di spartire l’attivo e il passivo di un’opera che non ci sembra giusto respingere in blocco.

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Grosso modo si potrebbe dire che nel Disprezzo si salva la parte visiva mentre è discutibile ciò che i personaggi fanno e dicono. Stilisticamente il film sta in piedi, eccome: rivela un linguaggio e una personalità d’autore (quindi togliere la firma risulta per Godard un controsenso). Opaca e gratuita appare invece la storia, così lucidamente motivata nel romanzo di Moravia; sicché si potrebbe parlare di traduzione insufficiente, di mancata esteriorizzazione di una vicenda che ha profonde e aggrovigliate radici nell’interiorità dei personaggi.

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Si tratta della fine di un amore coniugale. Paolo, uno sceneggiatore cinematografico a corto di quattrini, è ingaggiato da un dispotico produttore per rifare secondo i pacchiani voleri di costui il copione di un film sull’Odissea diretta da un grande regista del passato, Fritz Lang (che in effetti impersona se stesso). Paolo accetta l’incarico senza entusiasmo, all’unico scopo di pagare l’appartamento appena acquistato: in sostanza per amore della moglie, la bella Emilia, che nel libro (ma non nel film) è descritta come una ex dattilografa di gusti semplici e casalinghi, che vede nel matrimonio una sicura e tranquilla sistemazione. L’incrinatura dei rapporti coniugali, il motivo per cui Emilio comincia a disprezzare il marito nascono in sostanza da un malinteso: dal dubbio della donna che Paolo voglia gettarla nelle braccia del produttore per agevolare la propria carriera. Giustificate o meno sulla pagina, questa e altre decisioni irreparabili (come il definitivo distacco di Emilia dal marito, o la rinuncia di costui al lavoro dopo aver perso l’amore della donna) nel film appaiono precipitose e poco spiegate, frutto di impressioni momentanee o addirittura di capricci imponderati: e tolgono convinzione a tutto l’insieme.

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Mentre il perplesso spettatore è ancora intento a raccapezzarsi, ecco arrivargli addosso con repentina bruschezza il tragico finale: Emilia e il futuro amante stroncati da un incidente stradale, vittime di quella cieca fatalità che spesso ricorre nelle soluzioni moraviane.

La regia di Godard ha esasperato i vuoti e le manchevolezze del copione accentuando gli aspetti enigmatici della vicenda con un giocherellare frigido e cerebralmente compiaciuto della macchina da presa intorno oggetti, personaggi, elementi scenografici e ambientali. E qui come si è detto le cose vanno meglio perché i paesaggi sono quelli di Capri (con quella villa sul promontorio che è un’autentica trovata scenografica) e la protagonista Brigitte Bardot non è mai stata così suggestivamente fotografata, così “capita” e “interpretata” nel suo contraddittorio fascino (però è la glorificazione di B.B., non l’Emilia di Moravia).

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Insomma, un film intelligente, raffinato, bello a vedersi e anche acremente vero in certi brani (i litigi coniugali, qualche graffiata al mondo del cinema) ma nel complesso mancato. Tra gli altri interpreti efficaci seppur schematici i produttori di Jack Palance e la segretaria di Georgia Moll; debole invece il francese Michel Piccoli (Paolo), che a parte il resto recita per tutto il film con il cappello in testa, senza levarselo nemmeno nella vasca da bagno: una bizzarria futile e premeditata, che può illuminare certi aspetti deteriori della personalità di Godard.

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Libertà – 3 novembre 1963

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