“Fino all’ultimo respiro”

Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, Francia 1960, 90’) di Jean-Luc Godard

27D72ED4-28D1-4906-A2ED-CC93CD0CC0E3

Si aveva l’impressione che dopo il grande tambureggiamento pubblicitario dell’anno scorso, dopo gli autentici valori di Hiroshima mon amour e I quattrocento colpi, la cosiddetta “nouvelle vague” mostrasse prematuramente la corda; che le sue strombazzate novità si riducessero a un’abile montatura, pronta a ripiegare sull’accademismo delle posizioni conquistate. Invece, a confortante smentita, ecco arrivare Fino all’ultimo respiro (A bout de souffle), opera di esordio del non ancora trentenne Jean-Luc Godard: un film “giovane”, anarchico, rabbioso, deliberatamente provocatorio ma sincero come pochi, un documento significativo del disordine del nostro tempo del vento di novità che lo scuote. È un concetto che abbiamo già avuto occasione di esprimere ma che non sarà male ribadire: molte cose oggi stanno cambiando – a dispetto di chi non vorrebbe – e il cinema, infallibile specchio di epoche e costumi, registra e sottolinea questo cambiamento con l’evoluzione dei contenuti e soprattutto delle forme. Il cinema per sua natura è prudente e conservatore, arriva in ritardo sulla letteratura e sulla vita (ne prendano nota i censori che scambiano gli effetti con le cause); ma oggi sente vivissima la necessità di spezzare gli schemi narrativi tradizionali, e in questa direzione innovatrice si muovono gli artisti più sensibili e intelligenti (Bergman, Fellini, Antonioni, Resnais). Come Hiroshima mon amour, come La dolce vita, Il posto delle fragole, L’avventura, anche Fino all’ultimo respiro è un film di rottura, un film rivoluzionario, un’opera che fa scandalo; ma che scandalizzano intanto i benpensanti della morale, quanto in pensanti della sintassi (e per questo non ho avuto noie giudiziarie). La ribellione dell’”arrabbiato” Godard – e usiamo l’aggettivo nel senso dell’inglese Osborne – si esplica più in termini formali che contenutistici, pur essendo i primi specchio dei secondi. La trama non ha importanza, si può riassumere in poche righe: Michel, un “blouson noir”, uccide per futili motivi un poliziotto e si rifugia a Parigi presso Patrizia, una ragazza americana ignara dell’esser suo. Michel si innamora di Patrizia che dapprima lo protegge, poi lo denuncia alla polizia quasi per dimostrare a se stessa di non cedere al sentimento. Resosi conto di essere un “morto in libertà provvisoria” Michel rinuncia alla fuga e si fa ammazzare, insultando l’amata.

C86D450A-95BE-4492-B888-AC5F5DED6B55

Raccontata così la storia sembra vecchia, insignificante, persino romantica. Quante volte l’abbiamo visto sullo schermo? Forse fin dei tempi di Pepè Le Moko e de Il porto delle nebbie: e infatti è stato scritto che Michel è un Pepé Le Moko passato al filtro della psicanalisi. Ma anche se il riferimento è giustificato, specie dalla tradizione di volta che è una “costante” della cultura francese di qualsiasi epoca, il divario fra il populismo di Jean Gabin e l’esistenzialismo di Belmondo è ancora più profondo del quarto di secolo che li separa e di tutto quanto c’è passato in mezzo. Ciò che distingue Michel è la natura assolutamente gratuita, disinteressata della sua ribellione: è il suo sentirsi estraneo alla società senza sovvertirla. Egli esprime l’angoscia di vivere in un certo mondo, ma anche l’accettazione di quel mondo; e quindi il concetto di anarchia non va riferito all’atteggiamento del personaggio, ma a tutto l’universo che lo circonda; al disordine appunto, allo smarrimento, alla confusione di valori tipici del nostro tempo e che rendono il film così attuale, così vero, con l’ossessione della morte sullo sfondo.

3207375B-E071-46D5-ACBC-1A3481A5247B

Questo caos, questa irosa disperazione trovano come si diceva la loro più manifesta corrispondenza espressiva nella novità quasi blasfema del linguaggio filmico. Sotto questo aspetto, Fino all’ultimo respiro è una sfida aperta tutte le regole del galateo grammaticale produttivo. Godard ha realizzato il suo film in un mese, con soli 45 milioni di franchi, girando all’aria aperta, senza riflettori senza complicate attrezzature tecniche. Certe traballanti panoramiche sono fatte mano, la macchina ha spesso il ballo di San Vito, il discorso è volutamente sgrammaticato (qualcosa di analogo all’uso del parlar familiare in letteratura); persino l’inquadratura – questo elemento basilare e unitario del linguaggio cinematografico – è continuamente frantumata e ricomposta, eliminando la convenzione dei campi e controcampi, quasi a simboleggiare la distruzione e il ripudio delle più certe unità di misura (non è stato polverizzato anche l’atomo?) e l’anelito a un’estrema libertà narrativa. Questa voluta sciatteria, questo ostentato disprezzo per le convenzioni non sono dunque fini a se stessi, ma mirano a far aderire alla realtà il mezzo cinematografico con più bruciante immediatezza, a raggiungere un’espressione più moderna e viva, ad affermare che certi valori tradizionali oggi non contano più nulla e che si apre davanti a noi tutto un mondo nuovo, con altre regole e dimensioni (si noti anche il contrappunto polemico dell’indifferente vagabondare di Michel tra la folla che assiste la parata militare di De Gaulle). I risultati del film sono sconcertanti, forse discutibili, ma non si può non ravvisare in esso il segno di un talento autentico e di un’estrema intelligenza. E sincerità, anche: nella loro ardua complessità e ambiguità psicologica i personaggi di Belmondo e della Seberg (un saggio di recitazione esemplare) hanno il timbro di un’umanità genuina e sofferta, che riscatta tutto quanto nel film si può ritrovare di snobistico e di cerebrale.

Cat

Libertà – 1 dicembre 1960

torna ai progetti