“Arrangiatevi!”: lo sguardo del cinema sulla crisi economica

“Arrangiatevi!”

Così ammoniva alla gente il grande Totò nel finale dell’omonimo film di Mauro Bolognini del 1959. La nuova legge Merlin aveva da poco sancito la chiusura delle case di tolleranza e molti italiani si ritrovarono di colpo a dover cercare un modo, una soluzione che potesse sopperire a questa improvvisa mancanza. Ancora una volta – e non sarebbe stata sicuramente l’ultima – un fatto politico, sociale o economico innescava la ricerca di un espediente o di una strategia che potesse sviluppare quell’arte dell’arrangiarsi così tipicamente italiana.

Erano però anni e contesti molto diversi da quelli attuali o da altri storicamente altrettanto significativi, dove quest’arte era figlia solo del bisogno di sopravvivere.

Il Cinema ha sempre guardato con interesse le dinamiche delle varie crisi economiche succedutesi nel corso della storia. La stessa cosiddetta “settima arte” ai suoi inizi stentava a decollare e a trovare consensi nel pubblico. René Clair ne descrive bene gli aspetti nel suo film Le Silence est d’Or del 1947, dove la giovane coppia protagonista accetta di entrare a vedere il cinematografo con l’unica motivazione di potersi riparare dalla pioggia.

Ma il Cinema è anche e soprattutto un’industria, e come tale non può rimanere immune dalle conseguenze delle congetture economiche. Le crisi che hanno segnato la storia hanno sempre generato un’alterazione profonda dei rapporti sociali tra le varie popolazioni colpite. Eppure paradossalmente gli incassi al box-office hanno sempre subito solo lievissime flessioni se non addirittura degli aumenti. Le cause di ciò sono sia di natura economica – il biglietto d’ingresso resta sempre più basso rispetto ad altre forme di spettacolo – sia e soprattutto di natura sociologica e psicologica, laddove il bisogno di evasione e di condivisione di un evento collettivo ci portano a sognare e a illuderci almeno per un paio di ore che tutto sia diverso e che i nostri problemi non possano entrare con noi in sala.

A nostro avviso per inquadrare al meglio il tema in oggetto è opportuno dividere in tre capitoli ciò che la storia del Cinema ha prodotto durante i grandi periodi di crisi e gli impulsi e le modificazioni che ne ha ricevuto.

Parleremo dunque della grande depressione Hollywoodiana degli anni trenta, del Neorealismo italiano del dopoguerra e infine del Cinema post-industriale che ha trovato le sue massime espressioni nella filmografia sempre americana ma anche britannica e in parte italiana.

1. La grande depressione e lo splendore di Hollywood

 L’industria cinematografica americana reagì bene e con tempi rapidi al crack della borsa di New York, rivoluzionando i propri sistemi di produzione e le tecniche di narrazione, agevolata in questo dalla forte domanda di una forma di svago a buon mercato.

Volano di questa richiesta furono da principio i “nickelodeons”, semplici e artigianali spazi espositivi al coperto adibiti alla proiezione di immagini in movimento che ebbero la loro maggior espansione dal 1905 al 1915. La parola deriva dalla fusione dei due termini nichel, che era la monetina in vigore per far funzionare l’apparecchio, e odeon, antico termine greco che stava a indicare proprio un teatro con tetto.

L’elezione a presidente degli Stati Uniti di Franklin Roosevelt nel 1932 si rileva fondamentale per ridare sostegno e nuova linfa a un’industria che lo stato americano non poteva più trascurare. Furono approvate nuove leggi a favore della produzione cinematografica attraverso la creazione di singole società che gestivano le intere fasi di lavorazione di un film, fu inoltre messa in cantiere una gigantesca opera di modernizzazione delle sale attirando con nuove tecniche l’attenzione e la curiosità del pubblico. Fu proprio una celebre frase del presidente a rendere ben chiaro il progetto in essere: “Quando il morale della gente è a terra, è una cosa magnifica che per soli 15 centesimi un americano possa andare al Cinema a vedere il viso di una bimba sorridente e dimenticare le proprie preoccupazioni” (chiaro riferimento alla allora bambina prodigio Shirley Temple).

L’obiettivo principale era di far scordare la crisi e ridare fiducia agli americani nelle istituzioni. Produttori, sceneggiatori e registi si misero all’opera per creare un nuovo linguaggio per far sognare ed emozionare la gente.

Regole base erano l’utilizzo del classico happy ending e la scritturazione delle grandi star del momento. Vietato quindi parlare di crisi, i produttori controllavano rigidamente le sceneggiature e gli attori non dovevano mai recitare parti drammatiche. Tutto ciò fu codificato ancora più marcatamente dal famoso e famigerato Codice Hays di autocensura ideato negli anni 20 da Daniel A. Lord, studente gesuita. Egli, dopo aver visto il film Cabiria del nostro G. Pastrone, restò meravigliato dalle potenzialità del Cinema, ma temeva che potesse rivelarsi dannoso per la società al punto di poter cambiare il modus vivendi della popolazione. Fu poi codificato da Will Hays, avvocato e presidente del partito repubblicano dello stato di Indiana, e rimasto in vigore dal 1934 al 1967. Il testo di legge si fondava su tre principi base che pretendevano che nessun film abbassasse il morale degli spettatori, che fossero rappresentati solo standard di vita corretti e che la legge non venisse mai messa in ridicolo o discussa. Di conseguenza niente scene violente o di nudo, vietata la rappresentazione dell’uso di droghe o alcolici, molte parole furono bandite dal linguaggio comune, l’immagine sacra del matrimonio e della famiglia doveva essere messa sempre in risalto. Le scene di omicidio andavano girate in modo tale da scoraggiarne l’emulazione, eventuali relazioni tra razze diverse erano proibite e la bandiera degli Stati Uniti doveva essere mostrata e trattata con rispetto. E’ bene ricordare che la stessa crisi economica aveva ridotto molti capi dell’industria cinematografica in una condizione tale da dover ricorrere agli istituti di credito per finanziare il rinnovamento delle sale (la nuova tecnologia per la conversione al sonoro costava tra i 7.000 e i 15.00 dollari ciascuna) e molti finanziatori pretesero in cambio di accettare le norme del codice.

Se negli anni precedenti si produssero diversi e significativi titoli che mettevano in discussione i valori tradizionali americani come Applause , di R. Mamoulian del 1929, il primo Frankestein di J. Whale nel 1931  o il film culto Freaks di T. Browning del 1932, fino ad arrivare al grande film di H. Hawks  Scarface che verrà poi ripreso da De Palma negli anni 80, sotto la scura censoria del codice Hays uscirono film come Hell’s Angel, H. Hughes, 1930, Girls About Town ,G. Cukor, 1931, Me and My Gal, R. Walsh , 1932 e tanti altri.

Per sconfiggere la crisi, o più semplicemente nasconderla agli occhi del popolo, si codificano in quegli anni quelli che saranno poi definiti storicamente i generi cinematografici.

Per le industrie i film di genere come western, fantascienza o guerra, erano più semplici da realizzare e da far comprendere al pubblico. Il messaggio di ottimismo prodotto dal Cinema americano deve essere analizzato, alla luce delle difficoltà della Grande Depressione, come un tentativo, perfettamente riuscito, di ridare speranza e gioia di vivere in un contesto sociale segnato dalla miseria e dalla mancanza di prospettive.

Maestro indiscusso di questa fase fu John Ford che codificò il genere western applicando questi concetti in maniera esemplare. In tutti i suoi film più celebri, da Ombre Rosse, Sentieri Selvaggi, Furore, L’Uomo che uccise Liberty Valance, fino alla Battaglia di Alamo, i temi della famiglia della patria e del rispetto della legge erano i punti di riferimento di ogni trama.

Non a caso il suo attore feticcio fu John Wayne che raffigurava al meglio il prototipo dell’americano vincente, ottimista e onesto.

 2. Tra neorealismo e cinema popolare

Cosa si aspettava di vedere, nel difficile periodo post bellico, lo spettatore che varcava la soglia di un cinema, lasciandosi alle spalle alcuni anni terribili e con l’incerta prospettiva della ricostruzione? Come si orientavano e chi premiavano le preferenze del pubblico, in una fase tanto feconda, sotto il profilo dell’arte, quanto complessa dal punto di vista sociale?

Appartiene ormai alla vulgata sul neorealismo (esploso proprio in quegli anni), la constatazione per la quale il periodo compreso tra il 1945 (o il ’43, volendo partire da Ossessione) e il 1948 (Ladri di biciclette, tra gli altri) sarebbe il momento di più vivace realizzazione neorealista; mentre la stagione successiva, a cavallo del 1950 e oltre, sarebbe caratterizzata, nell’inasprirsi della guerra fredda, da un certo ripiegamento del filone. In questa seconda fase, la comparsa delle prime incertezze, il dibattito tra i realizzatori, le perplessità della stessa critica militante segnerebbero, dapprima quasi inavvertitamente, poi con l’emergere di irrigidimenti e fiere rivendicazioni, l’inesorabile anche se lento declino del genere.

Tuttavia, almeno sotto il profilo dell’accoglienza da parte del pubblico popolare, la tradizione neorealista appare da subito minoritaria, come sembrano sottolineare alcuni interventi critici del periodo che, pur non discutendo gli alti risultati artistici di Ossessione o di Roma città aperta, guardano con sospetto un tipo di cinema che sembra tradire, nel suo sdegnoso rifiuto delle risorse della spettacolarità, la fondamentale funzione di intrattenimento che il cinema sa esercitare proprio nei suoi momenti di più evidente disimpegno.

Rivendicano, tali posizioni, l’innata vocazione al divertimento così tipica del cinematografo; lamentano l’eccessiva cupezza imposta dal severo abito neorealista alla produzione corrente; avvertono, forse, che la media imposta del genere artisticamente più agguerrito è lontana dai gusti delle grandi platee, che ricercano più uno svago dalle pressanti preoccupazioni quotidiane, che un’occasione di riflessione o di arricchimento culturale.

Per cogliere in tutta la sua evidenza tale posizione, basta sfogliare la rassegna critica di un acuto spettatore professionale come Pietro Bianchi, spesso celato dietro il nom de plume di Volpone, e cogliere, ancora intrisa di sapidi umori provinciali (Bertoldo e poi Candido sono le testate che ospitano di preferenza le sue cronache cinematografiche), la pressante nostalgia per i film d’intrattenimento e la tentazione, sempre in agguato, di rigettare, con un richiamo anticonformista al senso comune, la difficile offerta cinematografica avanzata dalla intristita tradizione neorealista. “In Italia ci sono le donne – scrive Bianchi, nel cruciale ’48, in una lettera al direttore de La critica cinematografica – Diceva Stendhal che il nostro era l’unico Paese al mondo dove la passione amorosa vinceva su tutto. Anche oggi, a cento anni di distanza dalle annotazioni del savio di Grenoble, gli italiani credono più all’amore che ad altri assoluti: guerre, rivoluzioni, ideologie, socialismi ect. Ma il cinema nostro queste faccende nostre le ignora. Si interessa al contingente: sciuscià, segnorine, partigiani e trascura l’eterno. Abbiamo esportato Anna Magnani (brava attrice, non c’è che dire ma non “bella italiana”) e lasciamo oscuramente invecchiare Clara Calamai e Mariella Lotti. Delitti verrebbe quasi da piangere dalla rabbia”.

La prevedibile conclusione, tirando le somme di un discorso condotto evidentemente sul filo dello sberleffo ma non per questo meno conseguente, è che “i registi Pietro, Beppe, Luigi e Alberto (al lettore la velata allusione, all’anagrafe neorealista – nota mia) ignorano la vera Italia. Poi strillano forte se la gente preferisce al Collettivo ecc. Paulette o Rita”.

Non si creda che Volpone Bianchi sia, nel suo ufficio di critico di testate umoristiche (e dell’umorismo di scuola Guareschi) o di occasionale corsivista per rotocalchi popolari come Oggi, un gazzettiere dai gusti piuttosto corrivi; si tratta, per la verità, di un raffinato conoscitore di cinema, la cui cultura spettatoriale si era formata sui classici espressionisti e che, all’uscita di Roma città aperta aveva appropriatamente salutato la rinascita della produzione nazionale dalle ceneri della guerra.

Semplicemente la sua è una voce fuori dal coro che sembra avvertire anzitempo, con più di un accenno di compiaciuto anticonformismo, la stagnate accademia, l’incomunicabilità a cui la tradizione neorealista sembra irrevocabilmente avviarsi.

In quello stesso 1948, dalle colonne di Star, un altro osservatore, destinato per parte sua a passare ben presto dalla parte dei realizzatori, ricorre a toni di ironia non meno irridente, per stigmatizzare la medesima deriva autoriale. E’ a Steno, il cui imminente approdo alla commedia di costume non appare quindi troppo casuale, che si deve la compilazione, ad uso dei lettori complici, di uno scanzonato “decalogo del perfetto regista neorealista”: “Le parolacce della Magnani si incidono sulla colonna sonora, non si discutono” – leggiamo tra le altre raccomandazioni – e “il telefono bianco è il tuo nemico: non dargli quartiere” quasi a chiudere sarcasticamente il cerchio dell’esperienza che aveva portato i quadri del neorealismo dall’abiura del disimpegnato cinema di regime (appunto i vituperati telefoni bianchi) al varo di una poetica di segno risolutamente e talora sgradevolmente opposto e contrario.

Era in effetti impossibile per il lettore non ricordare che la maschera neorealista della Magnani avesse come antecedente più prossimo il personaggio di verace popolana delle commedie di Gennaro Righelli, vicine alla farsa più scanzonata, o trascurare che Vittorio De Sica inventore degli Sciuscià che “precedono le colonne” neorealiste come recita un altro comandamento del Decalogo – fosse stato il divo forse più amato della popolarissima e autarchica produzione dei “telefoni bianchi”.

E a sancire inequivocabilmente questo drastico ribaltamento di ruoli, avanzando anche in questo caso più di un sospetto sulla precoce conversione ad accademia del movimento neorealista, ecco comparire, nella colonna a fianco del decalogo, il catalogo dei “personaggi inevitabili” di ogni rispettabile film ascrivibile a quel filone.

Scorrendolo, vi si trovano “il negro ricercato dalla MP”, “la bionda ex-collaborazionista cocainomane”, due clandestine “danzatrici di boogie woogie” oltre agli inevitabili “Pescatori siculi, contadini di una cooperativa, reduci e rurali a scelta”.

Siamo nell’agosto del 1948; Caccia tragica di De Santis è ancora una novità relativamente fresca, il viscontiano La terra trema uscirà nelle sale di lì a qualche giorno e dunque il riferimento a quella “cooperativa contadina”, l’allusione ai “pescatori siculi” raggruppati dalla vignetta di Steno nel coro neorealista sono qualcosa di più di una vaga allusione.

Umori satirici si dirà brillanti elzeviristi che non perdono l’occasione di far risuonare qualche battuta ingenerosa all’ombra di opere dalla riconosciuta e istantanea classicità. Può darsi, come può certo spiegarsi come innocua intonazione satirica la vis polemica che anima interventi di questo genere. E tuttavia riconosciuta la sua parte alla vena degli umoristi, resta l’impressione di un fondo di verità che le battute più ovvie, proprio in virtù del senso comune che in esse sembra vietamente far capolino, arrivano a cogliere con una prontezza forse sconosciuta agli interpreti più raffinati di quella stagione. Come se le osservazioni senza pretese di Steno e Pietro Bianchi, in forza di quel tono dimesso e ostentatamente banalizzante, muovessero da una salda intuizione dei gusti popolari espressi, in modi ancora sconosciuti alla cultura cinematografica alta, dai lettori di Star o di Oggi.

La chiave di volta del nostro cinema mi sembra si possa trovare in un esame accurato non tanto dei dieci o quindici film di Visconti, De Sica e Rossellini, che ormai conosciamo a memoria, quanto dei film popolari, dai napoletani ai veneziani, da quelli di Matarazzo a quelli di Brignone e Mario Costa”. E’ un passo di un articolo di Callisto Cosulich, La battaglia delle cifre, apparso nel 1957 su Cinema Nuovo; ma più importante della sua prima comparsa, ci appare in questa sede il suo richiamo nelle pagine iniziali di Cinema e pubblico, la cronaca di un ventennio di cinema nazionale (1945-1965) in cui Vittorio Spinazzola, per la prima volta in modo sistematico, accetta e svolge la verifica quantitativa suggerita da Cosulich come chiave di volta della cinematografia italiana. Naturalmente, in quel 1985 in cui compare lo studio di Spinazzola, la questione del distacco tra il cinema di qualità (leggasi neorealismo) e gli indirizzi del pubblico è un fenomeno storicamente assodato. Raramente, tuttavia, gli erano state dedicate pagine di scrupolosa contabilità quali si hanno in Cinema e pubblico, la cui disamina, avviandosi sul terreno di un’analisi gramsciana del cinema popolare, sceglie preliminarmente la via della solida rendicontazione delle stagioni cinematografi che comprese tra l’apparire dei dieci o quindici film citati da Cosulich e l’affermarsi incontrastato, in tutt’altro contesto, della cosiddetta commedia all’italiana.

Le cifre squadernate da Spinazzola sono invero alquanto impietose e registrano, con una loro cruda verità, le dimensioni effettive del fenomeno neorealista, delineandone in modo impietoso l’accoglienza tutto sommato marginale da parte del grande pubblico.

Già nell’annata 1946-47, fa notare Spinazzola, nella classifica dei primi dieci incassi figurano solo tre titoli di scuola neorealista, due dei quali, segnatamente Il bandito, di Lattuada e Vivere in pace, di Luigi Zampa, contaminano quello stile con abbondanti apporti dall’universo della commedia e del cinema di genere e solo il terzo, Paisà di Rossellini, può legittimamente ascriversi alla più pura lezione del cinema resistenziale. Nel 1947-48 peraltro, e poi, via via, nelle stagioni che si succederanno fino ad inoltrarsi negli anni Cinquanta e a superare definitivamente l’esperienza neorealista, la presenza di tale scuola nelle risultanze del botteghino si fa ancora più sparuta, tanto che per ritrovare titoli come La terra trema, Umberto D o Francesco giullare di Dio, occorre spulciare il fondo delle classifiche, dove i numeri giungono a sfiorare l’irrilevanza.

“Il destino economico del neorealismo – segnala Spinazzola – appare già consumato al termine della quinta annata dopo la fine della guerra”, quando Rossellini porta sugli schermi Stromboli, terra di Dio e Francesco, giullare di Dio tra l’indifferenza generale; il duo Zavattini – De Sica va incontro ad analoga sorte con la fiaba neorealista di Miracolo e Milano e perfino gli esordi di Antonioni e Fellini, imparentati con il cinema post-bellico ma già portatori di una diversa temperie culturale, non riescono a sottrarsi ad una medesima sfortuna commerciale. Ma ribaltando invece la prospettiva e osservando quindi le tabelle di Spinazzola in ordine crescente, cosa troviamo ai vertici delle preferenze del pubblico? I campioni d’incassi di questi anni si chiamano Rigoletto (Carmine Gallone) o L’onorevole Angelina (Luigi Zampa). E poi Il trovatore (sempre Gallone) e Totò al giro d’Italia (fortunatissimo esemplare di una serie di fi lm del comico napoletano firmati da Mario Mattoli); oppure ancora essi annoverano I pompieri di Viggiù (di nuovo Mattoli) e, nell’anno 1949-50, il vero fenomeno commerciale di questi anni: quel Catene che rinnova la fortunatissima carriera divistica di Amedeo Nazzari e lancia Yvonne Sanson.

Si tratta in definitiva di lavori che attingono alle vaste riserve spettacolari della ottocentesca ma mai dimenticata tradizione operistica; oppure che celebrano l’astro nascente della comicità partenopea (destinato a un dominio incontrastato fino alla metà degli anni Sessanta).

Al limite assistiamo a operazioni di ripescaggio dei più applauditi repertori dell’avanspettacolo (I pompieri di Viggiù).

Fino all’esplodere si diceva – del fenomeno certamente più apprezzato dal pubblico: l’abile proposta melodrammatica confezionata da Raffaello Matarazzo. Commentando il suo grande riscontro popolare, a metà degli anni Cinquanta, dalle colonne milanesi de l’Unità, il regista di Catene e di tanti altri melò strappalacrime non esiterà ad ascriverlo al sentimento, che “c’è o non c’è”, “arriva al cuore degli spettatori o non arriva”. Per farvelo arrivare egli non nega – rivendica, invece – di aver sempre prestato attenzione all’orientamento degli spettatori stessi (e il sottinteso consiste naturalmente nella scarsa considerazione di quest’ultimo esibita dal cinema neorealista), confezionando storie di personaggi “che soffrono perché vittime di ingiustizie sociali o perchè schiacciati da un destino cieco e crudele”; innervandole di vicende “imperniate sulla vita quotidiana”; rinnovando, di film in film, il canovaccio fatale di “una felicità che sembra raggiunta e che invece, di colpo, il caso toglie da sotto gli occhi con terribile inesorabilità”.

Il pubblico popolare, specie negli anni di crisi, premia invariabilmente – conclude Matarazzo – film che suggeriscano e indichino una “più umana e sopportabile condizione di vita”. Trentasette milioni di spettatori (tanti si calcola abbiano visto i suoi lavori nell’immediato dopoguerra) sembrano dargli ragione.

3. Il Cinema post-industriale

 Rimaniamo ancora per qualche anno negli Stati Uniti per poi passare al nostro continente. Terminata la seconda guerra mondiale, la ripresa economica conquistò forza e consistenza negli anni e la crisi economica non si manifestò più con la veemenza e i disastrosi effetti del ‘29 o del ’39. Ma le paure degli americani, alimentate anche dal clima di Guerra Fredda con l’Unione Sovietica, dovevano assolutamente essere tenute sotto controllo dal governo. Ecco quindi che gli studios hollywoodiani si buttano nella fantascienza per creare un nuovo nemico da sconfiggere.

Il benessere di ogni singolo cittadino non poteva essere ancora minacciato da una guerra o da qualunque altro ipotetico pericolo. Si sviluppa quindi un intero filone di film popolati da alieni che minacciano la terra generando terrore e angoscia per il futuro. Lo scontato happy ending rassicurava il pubblico e alimentava la fiducia nelle istituzioni.

Uscirono in quegli anni film importanti come Ultimatum alla Terra (1951, R. Wise), La Guerra dei Mondi (1953, B. Haskin), Gli Invasori Spaziali (1953, W. Menzies) e il capolavoro di D. Siegel L’Invasione degli Ultracorpi (1956). Titoli e argomenti che saranno sempre presenti negli anni in questo prolifico e sempre apprezzato filone.

Ma torniamo al tema principale, la crisi economica ricompare negli USA negli anni 80 durante la presidenza di Ronald Reagan (tra l’altro ex attore che nel progetto originale di Casablanca avrebbe dovuto interpretare il ruolo che per fortuna fu invece affidato a Humphrey Bogart) e all’incirca nello stesso periodo nel Regno Unito con l’avvento al potere di Margaret Thatcher.

Il mondo industriale conosce in questi due paesi una crisi profonda, a farne la spesa è in prima persona la classe operaia che a causa delle politiche di delocalizzazione e di riconversione dei centri economici dagli stati del nord a quelli del sud, subisce un tasso di disoccupazione e una crisi sociale senza precedenti.

Ma ancora una volta gli studios americani preferiscono affidarsi a film fondati sui loro valori tradizionali oppure a produzioni che delineano i tratti caratteristici dello yuppie, figura tipica di quegli anni che trasmetteva allo spettatore fiducia e possibilità di facile successo. Nonostante ciò da alcuni autori cominciano a farsi sentire le prime voci di dissenso e di analisi critica nei confronti della politica economica reaganiana.

Se da un lato registi impegnati e coraggiosi come Oliver Stone esprimono le loro idee attraverso film di denuncia come Wall Street, 1987, altri si affidano al genere del documentario per informare sulla realtà delle classi dei lavoratori e sulle loro esigenze. Escono film come A Rustbowl Fantasy, (1988, Tony Buba) Roger & Me (1989, M. Moore) e American Dream (1990, B. Kopple). Tutti documentari che mostrano l’inesorabile deterioramento del patto sociale tra lavoratori e governo. Anche il genere horror, sempre proposto con lo scopo di denunciare e sconfiggere un qualsivoglia ipotetico nemico, trova il suo spazio nei gusti e nelle preferenze del pubblico. Opere come Society (1989, B. Yuzna) ma soprattutto Essi Vivono (1988, J. Carpenter), ci mostrano come all’origine del conflitto sociale ci sia una classe dominante aliena e animata dalle peggiori intenzioni. Questo sparuto gruppo di registi seppur rimasti in minoranza hanno avuto il coraggio e il merito di rivelare cosa realmente nascondessero le promesse di benessere del nuovo presidente americano. Più recentemente M. Moore con il suo film Capitalism: A Love Story, 2009 , delinea il manifesto programmatico del movimento di protesta contro le scelte economiche di Wall Street.

In Europa la situazione ebbe aspetti diversi e l’attenzione si concentrò non solo sulle conseguenze della crisi ma si cercò anche di analizzarne le cause e denunciarne i colpevoli con maggior spirito critico e una più profonda analisi socio-politica.

Il Regno Unito merita senza dubbio una discussione più approfondita. Lo sciopero dei minatori britannici che si svolse tra il 1984 e il 1985 fu un’azione di lotta sindacale condotta dall’Unione Nazionale dei Minatori di A. Scargill. Il duro confronto con il neo primo ministro M.Thatcher che decise di avviare un massiccio smantellamento dei siti estrattivi, portò ad uno sciopero nazionale che generò duri scontri e forti tensioni sociali e che terminò dopo circa un anno con la ripresa del lavoro e la sconfitta delle richieste dei minatori. Tale fermento politico e civile non poteva passare inosservato agli occhi degli intellettuali e dei registi inglesi. Autori come Mike Leigh e Stephen Frears si impegnarono a fondo in prima persona nel raccontare il dramma della crisi industriale. Un cenno a parte meritano la figura e il ruolo di Ken Loach, regista britannico figlio di operai che ha dedicato quasi tutta la sua opera cinematografica alla descrizione delle condizioni di vita della classe operaia. Da sempre impegnato politicamente e sostenitore dell’ideologia socialista ha fatto anche parte della corrente artistica del Free Cinema.

Fortemente osteggiato fin dai suoi primi documentari sul mondo del lavoro dal governo inglese, raggiunse un grande successo di critica e di pubblico negli anni 80 e 90 con film come Riff-RaffPiovono PietreLadybird-LadybirdBread and RosesPaul Mick e gli AltriIn Questo Mondo Libero ect.

Temi costanti nella sua opera sono la precarietà del lavoro e la denuncia delle politiche economiche e industriali del suo paese, i suoi protagonisti affrontano la loro drammatica condizione sempre con dignità e fermezza e lo spaccato della vita del proletariato che Loach ci offre è sempre lucido ma non privo di risposte e di speranze.

E in Italia cosa accadeva? Abbiamo già parlato dell’importanza del Neorealismo e dei suoi collegamenti e riferimenti alla vita economica di quegli anni, mentre l’attualità della crisi economica del nostro paese è stata affrontata nel Cinema con occhi molto diversi. La descrizione degli effetti sociali e politici prodotti è stata quasi sempre trattata attraverso vicende individuali e/o generazionali, tralasciandone o solo accennandole, le cause e le ragioni e spesso senza dare delle risposte. Film come L’Industriale (G. Montaldo, 2011) o Il Gioiellino (A. Molaioli , 2011) svolgono il tema attraverso i soli occhi del protagonista e dei suoi conflitti personali, o una semplice ricostruzione storica che finisce col dare poca sostanza alla drammaticità degli eventi. Ancora nel film Il Posto dell’Anima (R. Milani, 2003), l’analisi della lotta operaia e della crisi delle fabbriche lascia troppo presto il posto alle vicende umane e soggettive dei singoli protagonisti, così come nell’opera di Eugenio Cappuccio del 2004 Volevo Solo Dormirle Addosso la spietata e cinica vicenda dell’autolicenziamento cattura l’attenzione dello spettatore ma non affronta le radici del problema.

Oggi la parola crisi è diventata parte del linguaggio comune, ad interessarsene non è e non sarà solo il Cinema o altre forme d’arte, ma il problema ci coinvolge tutti personalmente soprattutto nell’ottica e nella speranza di saper ritrovare e ricostruire quel tessuto sociale unito e fiducioso nel futuro che dovrebbe essere alla base di ogni politica economica.

 

Vittorio Fusco e Luigi Boledi

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