Il film ha il bollino HBO, che abbiamo imparato anche in Italia a riconoscere come indice di qualità. Come lascia intendere il titolo, siamo di fronte a una sorta di vita criminale per 36 anni: dal 1984 al 2020 il regista Jon Alpert ha seguito le vite parallele di tre suoi amici, ovvero Robert Steffey, Freddie Rodriguez, Deliris Vasquez. All’inizio del documentario il pubblico viene messo in guardia: non ci saranno filtri, le immagini non verranno edulcorate, non ci sarà autocensura, e così sullo schermo scorreranno fotogrammi diversi per la qualità delle riprese, ma simili per le vicende di droga, furti e fallimento. Rob, Freddie e Deliris ci provano e riprovano, a cambiare vita. Abbiamo simpatia per loro; per loro facciamo il tifo. Nel racconto, che si sviluppa in ordine cronologico, abbiamo la falsa spensieratezza e l’illusione di cavarsela sempre della giovinezza, il rischio dell’HIV, i figli che crescono e i corpi dei protagonisti via via più affaticati dalla tossicodipendenza; il percorso giunge ai giorni nostri con le mascherine indossate dalle persone per proteggersi dal Covid-19. Tra le strade, le case e le prigioni di Newark, la città più grande del New Jersey, Rob, Freddie e Deliris cadono, si rialzano, ricadono, si rialzano… Il richiamo della droga, unica vera consolatrice, è fortissimo. Non c’è spettacolarizzazione, ma la continua ricerca di verità in questo cinema domestico, ravvicinato, confessato. A tratti può far venire in mente Amore tossico di Claudio Caligari. Presentato Fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2021, Life of Crime evidenzia l’enorme quantità di morti per droga rispetto ai morti in guerra negli Usa e risulta così anche un film di denuncia.
Piero Verani