Un esile uomo ferito sul volto e nell’animo attraversa un quartiere desolato in cui una natura sfiorita e incolta incontra ciò che resta della presenza umana: edifici deteriorati in stato di abbandono, insegne al neon dalle luci pallide e intermittenti, un’altalena cigolante e inutilizzata. Il silenzio è infranto dal suono del vento e delle onde del mare che si infrangono sulla paludosa spiaggia circostante. La fotografia di questo spaccato – dalle tinte desaturate appositamente dal direttore della fotografia Nicolaj Brüel – ci fa pensare a un passato lontano, quello della Roma pasoliniana delle borgate, a quella di Scola e Nino Manfredi in Brutti, sporchi e cattivi o, in misura maggiore, al microcosmo di emarginati del lido di Ostia di Amore tossico e del più recente Non essere cattivo, entrambi per la regia di Claudio Caligari. Ma il paesaggio descritto ricorda anche quello di una landa post-apocalittica in cui una guerra atomica ha raso al suolo gli ultimi scampoli di una civiltà in rovina: se non conoscessimo a priori la sinossi di Dogman e le sue coordinate spazio-temporali, penseremmo che la narrazione si svolge in un passato molto lontano o, viceversa, in un futuro altrettanto distante. Invece Garrone racconta una storia saldamente ancorata nella contemporaneità e, attraverso il racconto della quotidianità di un gruppo di uomini mediocri in un piccolo quartiere periferico, sembra volerci aprire gli occhi sull’esistenza di realtà vicine alla nostra ma confinate ai margini nelle quali l’unica legge che può vigere è quella del più forte. Le coordinate spaziali non sono chiare: ci troviamo presumibilmente al confine tra il Lazio e la Campania, come suggeriscono i variegati accenti dei personaggi (con una maggioranza di romanesco), ma la collocazione degli eventi non è importante, così come la scelta del regista di non ambientare la storia nel quartiere della Magliana dove sono avvenuti, negli anni Ottanta, i fattacci del “Canaro” che hanno dato origine al film. La storia di Garrone è difatti romanzata, differente, probabilmente molto più affascinante del fatto di cronaca: come ha suggerito l’autore in un’intervista sulla Croisette, chi è alla ricerca del pulp e dello splatter e chi si figura Dogman come un revenge movie in cui la vittima diviene efferato e sadico carnefice con contorno di mutilazioni e scorticamenti, non paghi il biglietto e stia lontano dalla sala.
Ciò che ha da offrire Garrone in quello che probabilmente è, ad oggi, il suo miglior film, è una violenza per lo più psicologica ma non meno intensa: la prepotenza e i soprusi che Marcello è costretto a subire generano un legame empatico molto intenso tra protagonista e spettatore, provocandoci un dolore quasi fisico e palpabile e suggerendoci una sensazione di claustrofobia come se stessimo vivendo il medesimo incubo del canaro. L’omicidio dell’antagonista è ripulito dalle efferatezze e dai dettagli macabri che hanno riempito le pagine di cronaca nera nel lontano 1988: perfino la vendetta di Marcello sembra tutt’altro che intenzionale, ciò che l’infantile protagonista cercava dal brutale Simoncino non erano che semplici scuse, così la moralità dell’assassino non viene a mancare neanche in occasione del delitto. Rispetto al suo aguzzino e agli altri personaggi secondari, Marcello indossa dal principio alla fine la sua povertà materiale e intellettuale con assoluta dignità umana.
Venendo al plot, Marcello è un uomo piccolo e mite che vive in questo spazio dimenticato da Dio e gestisce una piccola attività di toilettatura per cani e trascorre le sue giornate tra il suo negozio “Dogman”, la compagnia della piccola Alida, figlia che vive con la moglie da cui ha divorziato, e i vicini con cui intrattiene rapporti pacifici. Nei confronti dei cani e della figlioletta Marcello nutre un amore sincero e profondo e viene ricambiato da questi soggetti che, in un contesto così sordido, sono gli unici in grado di provare anch’essi sentimenti d’affetto incondizionato. Per arrotondare e realizzare i sogni della bambina il protagonista gestisce anche un piccolo spaccio di cocaina – l’unico modo per incrementare le sue modeste entrate – e questo fa sì che la sua strada si incroci con quella di Simoncino, energumeno violento e cocainomane che terrorizza l’intero vicinato con minacce e violenza. Tra i due intercorre un’amicizia ambigua che si traduce in un torbido rapporto di potere in cui il cane da combattimento (le fattezze di Simoncino ricordano quelle del pitbull della sequenza d’apertura) comanda quello più mansueto e di piccola taglia, che per lui subirà infinite umiliazioni e sconterà anche un anno di prigione.
Dopo dodici anni di lunga gestazione Garrone realizza quella che può essere considerata ora la summa del suo cinema a livello tematico: dal racconto spietato della criminalità organizzata di Gomorra al racconto della mediocre e anarchica delinquenza di quartiere, restituita schiettamente e senza filtri per mezzo di una regia misurata che non ruba mai la scena al dramma intimistico di Marcello. Infine, un dovuto plauso all’omonimo attore chiamato a interpretare il protagonista, Marcello Fonte, una lieta scoperta capace di alternare registro drammatico e comico con l’uso di una mimica e una corporeità che a detta del suo regista è mutuata direttamente sugli esempi illustri di attori-marionetta come Chaplin e Keaton, giustamente gratificato con il Prix d’interprétation masculine al Festival di Cannes. Ma oltre a lui anche il resto del cast regge benissimo la parte, comprese le comparse a quattro zampe.
Federico Cristalli