“Senza tetto né legge” (1985) di Agnès Varda
Nata nata a Bruxelles nel 1928, Agnès Varda si dedica al cinema solamente nel 1954, dopo un lungo lavoro di apprendistato in un campo cinematografico. “Io non sapevo cos’era il cinema, innanzitutto perché non ci andavo: a 25 anni, avevo visto al massimo una ventina di film. Poi non frequentavo gente che in un modo o nell’altro si occupasse di cinema. Ho girato La PointeCourte così come ci si mette a scrivere il primo romanzo, senza preoccuparsi più di tanto della pubblicazione ”.
Questa dichiarazione la dice lunga su quanto la regista fosse lontanissima dall’isteria cinèphile del movimento francese della Nouvelle Vague, che la annovera tra i propri maestri per l’aspetto documentaristico, per la pulizia sincera, per il nitore e la freschezza della narrazione in un momento in cui stava per esplodere la lotta contro il cosiddetto “cinema dei papà”. (Si pensi che I quattrocento colpi di Truffaut e Hiroshima mon amour di Alain Resnais escono nel 1959 e che Fino all’ultimo respiro di Godard è dell’anno seguente).
Negli anni successivi la Varda comincia ad affinare la sua tecnica e confeziona tre cortometraggi: Oh stagioni, oh castelli (1957), commissionato dal Ministero del Turismo, per illustrare le regioni della Loira, l’Opéra – mouffe (1958), diario di una ragazza incinta che abita nel povero quartiere della rue Mouffetard, e Dalla parte della Costa Azzurra (Du cotè de la cote, 1958), via di mezzo tra un documentario sulla Costa Azzurra e un saggio sul turismo.
Nel 1961 esce Cleò dalle 5 alle 7 (Cleò de 5 a 7), il primo di una serie di ritratti di donne (nella quale si inscrive a pieno titolo anche “Senza tetto né legge”), che diventano quasi un marchio di fabbrica per la cineasta, che negli anni ’70 parteciperà attivamente al movimento femminista.
Sul finire degli anni ’60 si trasferisce per due anni e mezzo in California, dove gira tre cortometraggi. Segue un decennio di attività sempre al confine tra la finzione del vero e la verosimiglianza del falso, finché il Leone d’Oro, vinto a Venezia nel 1985 con Senza tetto né legge (Sans toit ni loi), la riporta prepotentemente alla ribalta. La femminilità aggressiva di Jane Birkin è al centro di due splendidi lungometraggi, Jane B. vista da Agnès V. (Jane B. par Agnès V.,1987) e Kung-fu Master (1987).
Sposata con Jacques Demy (1938-1990), la Varda gli dedica un film nel 1991, Garage Demy (Jacquot de Nantes), un dolce affresco del marito dall’infanzia alla morte, senza toni cupi né tocchi macabri, ma con il rigore poetico che accompagna tutta la sua opera.
Il film
“I personaggi che preferisco rappresentare sono i solitari, ribelli e marginali, oppure le coppie. Coppie sempre enigmatiche, sconcertanti, appassionanti nell’unione o nella diversità. Coppie che fanno e disfano il mondo in relazione ai loro amori e alle loro indifferenze. Solitari che camminano: realmente (nelle campagne) o mentalmente (nella loro angoscia)” (Agnès Varda). Simone è detto Mona, è un delle figure chiave degli anni ’80, emblematica nel suo totale anacronismo, nel suo scollamento dal reale che è allo stesso tempo aderenza assoluta al reale. Personaggio prepotentemente fisico, di un’istintività a volte quasi ferina (i rapporti occasionali con uomini sconosciuti), è “una che non passa inosservata”, come dice uno degli “sguardi” del film. Barbona, squinternata, emarginata, ripugnate, Mona è negativa esclusivamente nel suo essere improduttiva, sterile: i pochi squarci del suo passato non denunciano un’emarginazione costruita, ma uno stacco bruschissimo, ed alla platanologa che le chiede: “Ma perché ha abbandonato tutto?”, lei risponde: ”Meglio la strada e lo champagne”.
Del resto il suo viaggio è un eterno girare su sé stessa, un peregrinare vuoto sempre nella stessa regione che svela un percorso centrifugo: il distacco della protagonista dalla società comune e da ogni regola sociale, ma anche il diffondersi delle sue tracce sul territorio, testimoniate dagli incontri-scontri di Mona con altre “monadi”. Questa traiettoria ciclica è ulteriormente sottolineata dal riproporsi degli stessi personaggi, come la cameriera Yolande o l’agronomo Jean-Pierre, che seguono la parabola solo apparentemente discendente della ragazza, con uno stile narrativo caratteristico del cinema francese (sì pensi a Ci sono dei giorni e delle lune di Claude Lelouch o a I favoriti della Luna di Otar Ioseliani, prima regia francese del cineasta georgiano). E’ altresì vero che la figura del cerchio è, nella letteratura mondiale, la più utilizzata per descrivere l’iter individuale verso la libertà: l’apertura e la chiusura del film infatti, coincidono perfettamente, mostrandoci il corpo morto della ragazza in un semplice ritorno ciclico. L’assenza della protagonista, violentemente esibita nelle prime inquadrature, permette una visione ricostruita orizzontalmente e quindi scevra da qualsiasi tipo di giudizio critico: la pellicola è strutturata in modo strettamente documentaristico, con la camera fissa che raccoglie le tante piccole verità di Mona, e la regista ci regala la propria abilità nello sfruttare al meglio la spontaneità degli attori non professionisti: “E’ l’abbiccì del documentario: per mettere a proprio agio le persone, bisogna lasciarle coi loro vestiti, nelle loro case e alle prese col loro lavoro. Non ci sarà mai una parola di vero in quello che dice un contadino portato in uno studio televisivo”.
E con questo film a regista riesce perfettamente a realizzare la propria poetica cinematografica di controllo totale sulla propria opera (e non a caso è prodotto dalla Cinè-Tamaris, la casa di produzione fondata dall Varda): il suono in presa diretta e il taglio cronachistico contribuiscono a dare una forma compiuta alla sua idea di cinema come cinècriture. “Se uso questo termine dall’aria pretenziosa, cinècriture, è perché quello che io racconto è più importante di una semplice sceneggiatura. Significa che il film si scrive a partire dal momento in cui si trovano i posti, le persone e le idee giuste, fino a montaggio finito. Lo stile del cinema non dipende dalla sceneggiatura. La cinècriture è un commento e una sceneggiatura che si scrivono senza interruzione per tutta la durata delle riprese”. Anche i lunghi ‘travelling’ che seguono la ragazza per poi fissarsi sul paesaggio sono strumentali a questa idea di obiettività: la Varda non giudica, osserva; non si schiera, ma semplicemente “mette in mostra”. “E’passata senza progetti, senza meta, senza desideri, senza ambizioni”, dice di Mona il pastore laureato in filosofia, altra figura reietta ma comunque stabile.
Mona non fugge, vive e viaggia: la sua forza sta nel suo mistero, nella sua incapacità (e nella sua volontà) di comunicazione. Infatti la Varda, giustamente, la abbandona, senza aver trovato un motivo, una causa scatenante o una conclusione che vadano al di là dell’azione stessa. Il non aver cercato di delineare una psicologia della ragazza è la qualità maggiore di questo film scabro, specie se lo si confronta con l’abituale metodologia cinematica francese, fatta di impalpabili percezione, di lievi sfumature, di irritanti dialoghi senza fine. “Credo che Sans toit ni loi sia un film riuscito. E lo dico senza falsa modestia, perché dopo trent’anni che faccio cinema trovo sia il film in cui è meglio realizzata la mia idea di cinema di fiction su base documentaria. E in particolare quello che intendo con cinècriture, con piani strutturati nello spazio, senza psicologia, come si vede per esempio nelle carrellate sul “cammino” di Mona, che è il vero soggetto del film”.
Sandrine Bonnaire, l’attrice che interpreta Mona, grazie a questo ruolo ha vinto il ‘Cèsar’ per la migliore interpretazione, ed ha raggiunto una notorietà internazionale che l’ha portata oggi ad essere una delle più richieste attrici francesi.
“Sulla strada con questo tempo? Non l’ho scelto io il tempo. Però hai scelto la strada. Questo sì”.
Barbara Belzini