Giulio Cattivelli compirebbe 100 anni oggi, infatti nacque a Piacenza il 15 marzo 1919. Professore, giornalista e critico cinematografico che ha segnato la cultura e la società piacentina, ha avuto un rapporto speciale con i suoi allievi e con i suoi lettori e telespettatori. Cattivelli non si è occupato solo di cinema, ma anche di teatro, sport, letteratura, costume, dialetto piacentino e perfino del fiume Po. In questa sede ci interessa soprattutto il suo rapporto con la Settima arte. Prima da spettatore e poi da giornalista, Cattivelli ha attraversato praticamente tutta la storia del cinema: dal cinema muto degli anni 20 al cinema postmoderno dei primi anni 90 del Novecento. È stato un esperto di cinema molto stimato anche fuori dalle mura cittadine, frequentatore di festival del cinema internazionali e collaboratore di riviste specializzate come Cinema Nuovo; nel libro “Al cinema con Cat” alcuni colleghi di rilievo nazionale lo hanno ricordato con simpatia e ammirazione.
In un anniversario così importante come quello di oggi voglio annunciare l’impegno della nostra associazione a continuare a ricordare la figura di Giulio Cattivelli con il progetto denominato Premio Cat, quest’anno alla sua terza edizione, grazie alla collaborazione fondamentale di Fondazione di Piacenza e Vigevano, di Fondazione Libertà e di Editoriale Libertà. Il Premio Cat 2019 si svolgerà tra settembre e dicembre con alcune sorprese e novità rispetto alle precedenti edizioni. A onore del vero ci sono anche altre forme di omaggio a Cattivelli: la sala stampa del Comune di Piacenza e il Cineclub sono stati a lui intitolati. Senza dimenticare l’appassionato lavoro di Stefano Pareti, ex Sindaco di Piacenza, che conobbe Giulio, e ogni anno lo ricorda sulle pagine di Libertà nel giorno della sua scomparsa (10 agosto). Con la stessa passione negli ultimi anni è nato il Premio Cat, che nel 2018 si è consolidato. Ma il modo migliore per ricordarlo oggi è probabilmente, almeno dal mio punto di vista, citare qualche stralcio di sue recensioni di film.
Buona lettura e tanti auguri a Cat!
Piero Verani
“Il cinema in provincia è un pianto. La moneta cattiva scaccia la buona e in un anno non arriva neanche la metà dei film meritevoli di conoscenza. Poi per eccezione, ma a intervalli sempre più lunghi e si direbbe quasi casualmente, capita qualche opera da segnalare e da non perdere: come questo The loneliness of the long distance runner (La solitudine del fondista) assurdamente tradotto con Gioventù amore e rabbia. È un film già vecchio di quattro anni, prodotto e diretto da Tony Richardson, che solo dopo il successo di Tom Jones e del Caro estinto ha attirato l’attenzione dei nostri importatori. Ed è un’opera di rara intelligenza e verità umana, uno tra i più schietti e significativi esempi di quel free cinema britannico ancora così mal conosciuto, e del senso di rivolta con cui esso interpreta gli umori insoddisfatti dei giovani del paese più vivo e progredito d’Europa. […]”.
Dalla recensione di Gioventù amore e rabbia di Tony Richardson (Libertà 22 settembre 1966).
“È proprio l’epoca della nostalgia, della ricerca del tempo perduto. Delusi da presente, idealizziamo il passato, anche se si tratta di un passato prossimo, Un mercoledì da leoni è una specie di American Graffiti acquatico, non circoscritto al breve spazio di una sera ma prolungantesi per l’arco di oltre un decennio dal 1962 al ’74: la storia dell’amicizia di tre giovani raccontata in chiave di surf. Per i vecchi bacucchi che ancora ne fossero all’oscuro, converrà precisare che questo sport – poco praticato in Italia per ovvi motivi ambientali – consiste nel volteggiare su una tavola di legno in precario equilibrio sulle onde: ed è appunto popolarissimo sulle spiagge californiane, spesso battute da giganteschi cavalloni oceanici che moltiplicano le difficoltà e insieme esaltano la bravura dei gareggianti. […]”.
Dalla recensione di Un mercoledì da leoni di John Milius (Libertà 9 novembre 1978).
“[…] Benjamin, malgrado certe goffaggini del suo comportamento eccessivamente sottolineate, non è uno sciocco ma un personaggio di eroe moderno, umanamente dubbioso e “antidivo” come del resto l’attore che efficacemente l’impersona, l’inedito e curioso Dustin Hoffman. La prestigiosa Anne Bancroft è la navigata iniziatrice […]”.
Dalla recensione di Il laureato di Mike Nichols (Libertà 28 novembre 1968).
“[…] l’efficacia polemica di questo film volutamente così asciutto e gelido, che evita con cura gli abbandoni lirici, i ricatti patetici e i predicozzi moraleggianti per attenersi a un rigore e a una lucidità davvero cartesiani, è di una forza straordinaria, e tocca diritto il segno. Truffaut ha saputo riprendere cioè sotto un’angolazione nuova e personalissima il vecchio e più che mai attuale problema dei rapporti fra il mondo dell’infanzia e quello degli adulti, costruendo un’opera che dovrebbe indurre, soprattutto certi genitori e certi educatori (su vedano nel film quegli insegnanti così insofferenti, duri e ironicamente distaccati nei confronti dei ragazzi) a una salutare e preoccupata meditazione. […]”.
Dalla recensione di I 400 colpi di François Truffaut (Libertà 4 febbraio 1960).
“Nessuno, oggi, racconta più barzellette antifasciste; e se qualcuno lo facesse, ben pochi riderebbero. Il dittatoresi trova un po’ in questa situazione, e ci fa lo stesso effetto, come il volto di una bella donna invecchiata o di una moneta fuori corso. […]”.
Dalla recensione di Il grande dittatore di Charlie Chaplin (Libertà 5 aprile 1946).
“[…] Molto merito va all’interpretazione di Alberto Sordi, che senza uscire dal suo tipico personaggio, emblematico di tanti aspetti negativi del nostro ceto medio, compie la metamorfosi dal comico al tragico con sorprendente naturalezza e coerenza di trapassi e ci consegna il memorabile ritratto-documento di un individuo insieme ridicolo e spregevole, ma anche pietosamente umano, con una sottigliezza di sfumature forse mai prima raggiunta. […]”.
Dalla recensione di Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli (Libertà 21 aprile 1977).
“[…] Dopo Senso, di Visconti, Cronaca familiare è certo il più bel film a colori del cinema italiano: ma lo è perché quegli scorci fiorentini e quei paesaggi toscani insieme austeri e morbidi, asciutti ma patetici, quei colori spenti e dimessi (ocra e grigi, verdini e rosa stinto) sono gli stessi di Pratolini, sono l’equivalente visivo della struggente malinconia, dell’umile e schiva tenerezza di quel rapporto affettivo e del pudore che lo circonda, restituiscono il colore del tempo e l’esatta atmosfera della vicenda. […]”.
Dalla recensione di Cronaca familiare di Valerio Zurlini (Libertà 20 ottobre 1962).
“[…] tutto è a posto e niente in ordine. La formula dell’apologo sociale, cara alla nostra regista, è qui semplificata in uno schema addirittura elementare […]. L’amarognola morale della favoletta è comunque diluita nell’effervescenza di una commedia allegra e colorata, da respirare a pieni polmoni fra cielo e mare nell’inebriante scenario dell’estate mediterranea. Certo il film viaggia sul filo di una scommessa: ridotto per tre quarti a un battibecco di due soli personaggi, potrebbe rischiare la monotonia e il ristagno se il duetto non fosse sostenuto da due attori […] che ormai costituiscono una coppia affiatata, che fa cassetta ed è anche capace di inventare ogni volta nuove e fresche variazioni […]”.
Dalla recensione di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmüller (Libertà 1° febbraio 1975).
“[…] alle notazioni intelligenti e ai risultati positivi si alternano squilibri, ripetizioni e un eccessivo frammentismo che sbriciola la materia senza saperla poi ricomporre nella necessaria e unitaria compattezza. Ma nonostante i difetti, il non compiuto approfondimento del tema, e quel tanto di abbozzato che emana da molti episodi velleitari, il film per noi resta ugualmente importante. […]”.
Dalla recensione di Giovani mariti di Mauro Bolognini (Libertà 1° aprile 1958).
“[…] Anche in quelle parentesi finissime di satira – e qui si sente la mano di Zavattini, magna pars della sceneggiatura – che speriamo non suscitino il miope risentimento delle beghine. Il filo del linguaggio nel film, di una rara classica semplicità, è tutto teso, essenziale, calcolatissimo; non sapremmo trovarci un nodo, un allentamento, una sfilacciatura. […]”.
Dalla recensione di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica (Libertà 3 febbraio 1949).