50 anni di “Ultimo tango a Parigi”

Ultimo tango a Parigi (Italia-Francia, 1972, Col., 131’) di Bernardo Bertolucci compie cinquant’anni. Celebriamo uno dei capolavori del cineasta di Parma con la recensione scritta da Giulio “Cat” Cattivelli e pubblicato da Libertà il 18 febbraio 1973.

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Di fronte a un film importante la prima cosa sarebbe chiederci se è bello e perché. Invece di Ultimo tango a Parigi la gente vuol subito sapere se è osceno e dove.

Sono le conseguenze inevitabili di una pubblicità scandalistica e basata su denunce, sequestri e processi che vedi caso investono sempre le opere d’autore (risalendo ai tempi di Rocco e dell’Avventura) e trascurano la paccottiglia impunemente circolante.

Francamente non sappiamo e poco ci interessa, se il Tango è osceno o no. Diciamo solo (beninteso a titolo personale perché ciascuno ha il proprio grado di cultura, di sensibilità e di reazione) che neppure le scene più temerarie risultano urtanti o fastidiose nel contesto e nel clima unitario dell’opera, che non sottolinea gli atti in sé, ma il sentimento che li accompagna e che impregna e domina tutto il film. Questo sentimento-chiave è una lancinante disperazione, sintomo o testimonianza del male di vivere dell’uomo contemporaneo murato in una prigione esistenziale, e dei suoi affannosi sforzi per infrangere quel guscio e ricuperare il sapore della realtà naturale attraverso la scorciatoia più semplice e immediata, cioè il rapporto sessuale.

Un rapporto essenzializzato, puro e assolto, sfrondato di tutte quelle sovrastrutture, implicazioni e complicazioni che solitamente accompagnano, inquinano e alla fine guastano ogni storia d’amore.

Questa programmatica “ecologia del sesso” è l’idea madre della vicenda, la patetica utopia che il protagonista Paul tenta di realizzare incontrando casualmente Jeanne, una ragazza giovanissima, bella e disponibile, nella visita un grande appartamento sfitto alla periferia di Parigi. Dopo il primo furioso, animalesco amplesso sul nudo pavimento i due si rivedranno e si riprenderanno ancora in quel disadorno rifugio col patto di non rivelarsi (è Paul che lo vuole) nulla delle rispettive esistenze e legami e neppure i propri cognomi, quasi per esorcizzare appunto, l’inclusione di elementi estranei e di sentimenti borghesi. 

Ma intanto lo spettatore apprende che Jeanne, figlia di un colonnello morto in Algeria, è fidanzata con un fatuo registello televisivo che sta girando un documentario proprio su di lei; (garbata satira delle falsificazioni del “cinema-verità”); e apprende anche il segreto dell’angoscia di Paul, americano sradicato e ramingo, tenutario di un alberguccio equivoco e traumatizzato dal suicidio della moglie che dopo averlo abbondantemente tradito si è svenata nel bagno.

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La cupa e dolente rabbia di quest’uomo che ha già superato “il mezzo del cammino”, il suo schifo per il mondo, la sua cinica voluttà profanatrice e auto-distruttrice (tipici tratti di un identikit romantico e “maudit”) hanno dunque delle ragioni ben precise, non sono soltanto frutto di malessere esistenziale, ma proprio questa contraddizione umanizza il personaggio, il cui ritratto via via si arricchisce tra un amplesso e l’altro, di splendide illuminazioni retrospettive: gli amari ricordi di una povera infanzia, lo straziante addio alla salma della moglie, il colloquio a posteriori con il rivale che lascia immutato il rovello per quel gesto inesplicabile, lo sgomento di scoprire estranea la persona che meglio credeva di conoscere e insomma di constatare la nostra incapacità di capire la vita, misteriosa e assurda anche nei risvolti più meschini. 

Va da sé che anche il legame sensuale con Jeanne si rivela effimero e illusorio. Appagata la curiosità e oppressa da quella morsa soffocante, la ragazza accetta di sposare il regista e dà il benservito all’uomo che pureconfessa di amare. Paul non si rassegna a perdere l’ultimo aggancio con la vita e la giovinezza; ubriaco e furioso insegue Jeanne fino a casa. Nella concitazione del momento la donna afferra la pistola del padre e preme il grilletto. Alla polizia potrà raccontare di aver ucciso uno sconosciuto che l’aggrediva, e sarà soltanto una mezza bugia. 

Ultimo tango a Parigi è l’opera della compiuta maturità artistica di Bernardo Bertolucci, il trentaduenne ragazzone parmigiano che esordì giovanissimo con La commare secca e si affermò autore di rango internazionale con i più recenti Il conformista e Strategia del ragno. Lavorando per la prima volta su un soggetto personale (scritto in collaborazione con Franco Arcalli) anziché su tracce di autori famosi – da Pasolini a Dostojewski, da Borges a Moravia – Bertolucci si riconferma narratore di prima grandezza, specialista di un cinema di potente espressività e insieme di alta qualità letteraria.  

Con buona pace di quanti arbitrariamente ritagliano da corpo vivo dell’opera isolate sequenze e battute di dialogo per accusare senza capire, può ben dirsi che questo Tango è un film squisitamente romantico nel suo furente dolore, e addirittura moralmente stimolante e problematico (è anche il parere di un noto teologo) nell’evidenziare il fallimento di un rapporto esclusivamente carnale come surrogato di ogni altra forma di conoscenza, nell’invito a riflettere sui rapporti fra sesso e amore, nell’implicita accusa a un modo di vivere che atrofizzando sentimenti e valori ideali costringe gli esseri umani come belve in gabbia, a sentirsi vivi soltanto nell’ossessiva ripetizione di atti elementari. 

Ed è anche un film complesso e sfaccettato nella struttura e nella sostanza, delizioso anche nelle parti che sembrano marginali (l’ironico balletto della troupe televisiva, la tenera ricerca delle memorie infantili di Jeanne), dominato dalla funerea presenza della morte sempre inscindibile dall’eros; è un film leggibile su diversi piani, da quello psicanalitico (Jeanne che ama e odia in Paul l’alter-ego del padre) a quello sociologico (il conflitto borghesia-proletariato).

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Ma ciò che più importa, Ultimo tango a Parigi è un bel film, che brucia e risolve ogni diatriba contenutistica nella magica tensione e coerenza dello stile, nel dominio e nella fusione di tutti i mezzi espressivi. 

Frutto di un talento visionario e di un occhio cinematografico che sa reinventare e trasfigurare la realtà in una dimensione extra-naturalistica, il film è sempre figurativamente e scenograficamente mirabile, immerso in una luce rossastra come le passioni che evoca e ricamato di raffinati richiami liberty quasi a distanziare con deformazione espressionistica i personaggi e la vicenda da una troppo stretta e banale attualità, per farci sentire meglio la precarietà delle nostre stagioni e passioni terrestri e la struggente malinconia dell’esistenza che si consuma come i fatiscenti sfondi della vecchia Parigi o si illude di sopravvivere in grotteschi rituali e fantasmi del tempo che fu, come nella sequenza-chiave dei ballerini démodé puntigliosamente impegnati nella gara di tango che fa da cornice al congedo dei due amanti.

Non ultimo merito del regista l’aver pienamente ricuperato la genialità interpretativa di Marlon Brando insieme ferino e patetico fra libidine e singhiozzi ma sempre intimamente esulcerato e l’aver scoperto nella fresca provocante e sfrontata Maria Schneider (la figlia di Daniel Gelin) un’autentica “bète à cinema” che con la tranquilla insolenza dei suoi vent’anni potrà andare lontano.

Fra gli altri interpreti si rivedono con piacere un sempre valido Massimo Girotti e perfino la Maria Michi di Paisà. C’è anche Jean Pierre Lèaud forse unico punto discutibile del complesso. Languidamente suggestivo il commento musicale del sassofonista “Gato” Barbieri. 

Cat

 

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