Recensione di The Irishman

“L’irlandese” nei cinema e online

[ testo pubblicato sul Quotidiano Libertà sabato 9 novembre 2019 ]

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The Irishman è il film di gran lunga più atteso di questo inizio di stagione. Non farà i numeri del
nono film di Quentin Tarantino, C’era una volta a Hollywood, e soprattutto non staccherà i biglietti di Joker incarnato da Joaquin Phoenix. Ma l’uscita centellinata in poche sale per pochi giorni (a Piacenza al cinema Corso lunedì e mercoledì scorsi), con il prodotto filmico proposto come esclusivo, potrebbe pagare in termini pubblicitari per l’imminente lancio in streaming (dal 27 novembre su Netflix). E comunque darà – possiamo starne certi – buoni esiti commerciali in sala. Del resto, regista e attori sono icone del cinema degli ultimi 50 anni a partire dagli esordi nella cosiddetta New Hollywood. Cinque anni (cinque!) di lavorazione per The Irishman, tratto dal libro pubblicato nel 2004 da Charles Brand I heard you paint houses (Ho sentito che fai l’imbianchino). E alla fine Martin Scorsese e Robert De Niro sono riusciti a realizzare il film che volevano fare con i loro amici e colleghi.

Grazie al demonizzato Netflix, che l’ha prodotto e che, stando solo alla scorsa stagione, va premiato
per aver fatto la stessa operazione con titoli quali Roma, Leone d’Oro 2018, e Sulla mia pelle, il film
sul caso Cucchi. Ora, The Irishman di Scorsese, che è un maestro del cinema e a 76 anni ha dichiarato che solo Netflix ha accettato di finanziare il progetto (160 milioni di Dollari, 144 milioni di Euro) lasciandogli totale libertà creativa. E chi paga decide. Punto, fine delle polemiche e della storia. Il problema non è Netflix ma un sistema che ha bisogno di Netflix per produrre un film a Scorsese (Taxi Driver, Toro scatenato, Mean Street, Quei bravi ragazzi, Casinò); comunque il capro espiatorio Netflix è già in ottima compagnia e poi arriverà il servizio offerto dalla Disney. Una menzione per la Cineteca di Bologna che lo distribuisce nelle nostre sale in lingua originale con sottotitoli in italiano; una vera chicca Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci che in qualche scena parlano in italiano.

In 210 minuti The Irishman narra la storia dell’irlandese Frank Sheeran (De Niro) che da reduce
della Seconda guerra mondiale in Italia prima e umile lavoratore negli Usa poi, diventa un killer per
Russell Bufalino (Pesci) e stringe un rapporto di lavoro e amicizia con il famoso leader del sindacato degli autotrasportatori Jimmy Hoffa (Pacino), scomparso misteriosamente. Continuiamo a correre su una linea del tempo che va dagli anni 50 ai primi anni Duemila e viceversa, toccando i nervi scoperti degli omicidi politici degli anni Sessanta negli States e la crisi cubana. Gli attori se la sono cavata benissimo, perfettamente a loro agio nei sentieri selvaggi delle strade newyorkesi, a prescindere dalla tecnologia di ringiovanimento digitale utilizzata per togliere loro 30/40 anni nei flashback. Curiosità su De Niro e Pacino: pur essendo legati per tutti in modo indissolubile dal Padrino di Francis Ford Coppola, non hanno mai recitato nella stessa scena dello stesso film prima di Heat di Michael Mann (1995) e in The Irishman recuperano alla grande.

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Il film si regge su diverse polarità: operai e datori di lavoro, potenti e deboli, poveri e ricchi, leader
che fanno discorsi e massa che li ascolta, boss e sicari, battesimi e funerali, premiato e licenziato,
matrimoni e divorzi, giovani e vecchi, bambini e adulti, taxi e camion, mentore e protetto, tradito e
traditore, assolto e che assolve, bevitori e astemi, fumatori e non, puntuali che aspettano e ritardatari che si fanno aspettare, protezione e crudeltà, chi resta a piedi e chi sa far partire il motore, istinto di sopravvivenza e togliere la vita, delinquenti e onesti, uomini e donne, bambini e adulti, Usa e Cuba, assassini e assassinati, soldi e onore, comandanti e comandati, giustizia e ingiustizia, regole e trasgressioni, peccato e redenzione, gelati e pesci sul sedile, angurie e vino rosso, bombe e pistole, minacce e vendette, arringa e regolamento di conti. È il film del numero 2. Non c’è testa senza croce. C’è una cosa e il suo contrario. La contrapposizione è costante e netta. E poi il protagonista è Frank, quasi sempre il numero due: autista, collaboratore, protetto. I dialoghi lenti, a volte volutamente vuoti, assurdi, con un chiaro intento umoristico, si alternano a discorsi veloci, urlati, maniacali. Le inquadrature dall’alto verso il basso con un personaggio che sta sopra e l’altro sotto. Le simmetrie perfette; con gli elementi in equilibrio, finché dura.

Le porte socchiuse ci indicano che non c’è un di qua e un di là, un buono e un cattivo. O meglio, posto che sono praticamente tutti cattivi in The Irishman, rappresentano uno spiraglio di speranza, un’apertura o future possibilità: uno può cambiare e passare dall’altra parte. Oppure forse la porta socchiusa è il dilemma morale, il bivio davanti al quale si trova ogni personaggio, e ci troviamo noi nella vita, al momento di scegliere. Perché in fondo, al netto degli alibi, delle scuse o delle motivazioni, si può sempre scegliere. E non importa che tu sia un Travis qualunque, tassista reduce del Vietnam. It is what it is (È quello che è), dice Russ a un certo punto a Frank, quando giunge il momento di prendere la decisione più difficile.

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I movimenti della macchina da presa intorno ai protagonisti, i contrasti di luce, i chiaroscuri, pareti
chiare e schizzi di sangue che ricordano il primo cortometraggio di Scorsese (Big Shave, 1967) e i
ben più recenti film di Tarantino, le musiche evocative e ricercate, la voce fuori campo che ci guida
nel continuo andirivieni nel tempo alla C’era una volta in America (Sergio Leone, 1984), tema
connesso alla vecchiaia e alla morte – di questi uomini e di un certo cinema. Non sarà forse un
capolavoro, ma The Irishman è cinema con la C maiuscola: è complesso benché semplice, una
goduria per cinefili di ogni età; si può apprezzare anche solo come gangster movie, mafia movie
con cui spesso il pubblico si diverte come con i film d’azione. Ma l’ultima opera che ci ha regalato il
cineasta italoamericano andrebbe guardata tre o quattro volte per cogliere tutti i dettagli e farne
un’analisi approfondita. Ora dovremmo proprio solo rivederlo, cancellare quanto letto qui e
riscriverlo di sana pianta. Rivederlo, sì, meglio al cinema che a casa: con quelle persone che l’altra
sera al Cinema Corso ridevano, si spaventavano e si emozionavano emettendo suoni che
sembravano delle piccole ovazioni (trattenute per non disturbare i vicini di posto) di fronte all’ingresso in scena di Al Pacino a pellicola inoltrata, alle battute recitate in italiano e a citazioni di
altri film entrati nell’immaginario collettivo.

The Irishman è il C’era una volta in America di Martin Scorsese? Forse, lo capiremo. Auguriamoci
solo di vedere altri nuovi film firmati da lui. E certo è che un cerchio si chiude: il taxi giallo icona
del suo film cult, Taxi Driver (1976), viene qui allegramente affondato e addirittura fatto esplodere.

Piero Verani

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