Recensione di EASY RIDER

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USA, 1968: Billy e Wyatt – rispettivamente Dennis Hopper e Peter Fonda – vagabondano per gli States a bordo delle loro motociclette. Diversi, ribelli e rivoluzionari, i due centauri hanno abbandonato la monotonia della vita associata, consacrando la propria esistenza alla sregolatezza. Si rifiutano di lasciarsi addomesticare e provano repulsione all’idea di raccogliere del prestigio in briciole.

Quella di Billy e Wyatt si configura come un’audace fuga dalla mortificazione dello spirito, un’errabonda ascesi. Da una parte, il freudiano disagio della civiltà, la repressione del piacere, l’alienazione; dall’altra, la marcusiana felicità, la libera ricerca del benessere e della realizzazione personale.

L’intreccio è una vera e propria odissea: i due amici vengono in contatto con realtà molto diverse tra loro, talvolta persino pericolose. Accompagnati da una colonna sonora elettrizzante, caratterizzata da brani di Jimi Hendrix, Bob Dylan, degli Steppenwolf e dei Byrds, Capitan America e il suo fedele compare vivono la giornata a cavallo delle due ruote, per poi passare le notti accampati nella natura. Offrono passaggi ad autostoppisti sciroccati, vengono accolti come ospiti da isolate comunità agricole ispirate agli ideali del comunismo, vivono la stasi e il tedio della reclusione. Liberano dalla monotonia di una società massificata il giovane George (Jack Nicholson), un avvocato fallito rimasto prigioniero dell’alcolismo. Visitano le piccole e grandi città, attirando così le indesiderate attenzioni di alcuni abitanti. Capelli lunghi, energia, volontà di rinnovamento: elementi poco graditi alla mentalità chiusa e retrograda di certi ambienti.

Tuttavia, la pellicola di Hopper non si riassume tanto in una mera e semplice celebrazione del movimento, quanto più in un suo fedele affresco, capace di metterne in luce indiscutibilmente gli aspetti positivi, ma anche i lati negativi. Al fianco della libertà e della tolleranza, risaltano l’uso di stupefacenti, l’abuso di alcolici e la passione per il rischio. Benché la prospettiva sia costantemente imperniata sul personaggio di Wyatt, risulta alquanto difficile immedesimarsi totalmente in lui e apprezzare a pieno la sregolatezza dei suoi comportamenti. Hopper quasi si eclissa e non fornisce esplicitamente giudizi riguardo a ciò che mostra, ma lascia che sia il pubblico a elaborare un’opinione personale.

Davide Imbesi

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