“Prénom Carmen”

Prénom Carmen (Francia 1983, 85’) di Jean-Luc Godard

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A un anno e mezzo di distanza dal discusso Leone veneziano (omaggio al Maestro di una giuria di cinefili capeggiata da Bernardo Bertolucci) arriva da noi Prénom Carmen di Godard, con il solito equivoco della collocazione in un locale “a luci rosse”.

Perché l’eversivo autore di A bout de souffle e di tante altre opere memorabili si sia cimentato con l’immortalità sigaraia di Mérimée portata sullo schermo almeno venti volte (e recentemente da Saura e Rosi) è spiegabile soltanto come gesto di dispetto iconoclasta. Perché Godard si è impossessato dell’appassionata eroina naturalmente alla sua maniera, anticonvenzionale e dissacrante, pronta a smontare i miti e le retoriche, a verificare i rapporti fra realtà e finzione, a rimettere in discussione il modo di fare il cinema.

Tanto per cominciare, Godard sostituisce la musica di Bizet con cinque ardui quartetti di Beethoven, che i compassati esecutori, immersi ma staccati dall’azione, continuano a suonare per tutto il film. Carmen (l’olandese Maruschka Detmers, tipica ragazza moderna attraente ma piuttosto anonima) è una rapinatrice di banche, che durante un colpo si azzuffa con un giovane poliziotto, Joseph, lo soggioga e se lo rimorchia in un appartamento vuoto sul mare avuto in prestito dallo zio regista ricoverato in manicomio. Il quale è Godard in persona, che attraversa tutto il film con una piccola troupe come personaggio-testimone. Gli amanti prenderanno alla fine alloggio con il resto della banda in un grande albergo dove scoppierà la crisi tra Carmen e Joseph e l’eroina (colpita nella sparatoria conclusiva) troverà la scontata fine tra le braccia di un giovane cameriere che forse personifica Escamillo e forse no.

Al ragazzo Carmen agonizzante chiede come si chiama la luce che appare all’inizio del giorno. Il cameriere risponde: «Si chiama aurora». (E Cela s’appelle l’aurore è il titolo francese di un vecchio film di Buñuel, Amanti senza domani).

Questo è Godard, l’incorreggibile, provocatorio eppur geniale Godard di sempre. Ma dietro gli sberleffi, le auto citazioni (Le petit soldat), gli ammiccamenti cinefili (Il buco di Becker e Carmen Jones di Preminger) dietro le boutades a volte divertenti («Essere o non essere non è più un problema») affiora un pessimismo grave, con punte di autentica disperazione, e una certa stanchezza che non vorremmo definire senile. Stanchezza e sfiducia soprattutto nella finzione e nell’avvenire del cinema se non addirittura nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità in generale, come potrebbe suggerire l’insostenibile sulle visioni del mare ripreso dall’alto, specchio della sublime bellezza di una natura leopardianamente matrigna e indifferente alle umane sorti.

Un’altra chiave interpretativa forse la potrebbero fornire alcuni pensieri tratti dai diari intimi di Beethoven. Per esempio: «Tutto sommato l’unione perfetta di più voci impedisce il progredire dell’una verso l’altra». Oppure: «Mostra la tua potenza, destino. Non siamo maestri di noi stessi. Ciò che è deciso deve essere. E così sia».

Resta infine il contrappunto erotico, l’insistenza sulle del resto pregevoli grazie della bella Maruschka, e in particolare sul suo basso ventre. È un correttivo del pessimismo di cui sopra o è la conferma che anche il sesso, fonte della vita non serve a spiegare il mistero dell’esistenza e la pena di viverla e di rappresentarla? Che fare allora? Metterci a ascoltare Beethoven davanti al mare e celebrare anche la morte del cinema? Se lo dice Godard…

Cat

Libertà – 9 giugno 1985

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