Premio Cat 2022 – The Winner is

Premio Cat 2022 – The Winner is… Dopo un lavoro di selezione preliminare a cura di Cinemaniaci, la Giuria del Premio Cat 2022 costituita dal presidente Mauro Gervasini e da Marzia Gandolfi, Federico GironiBarbara Belzini, Ilaria Feole, Ilaria Floreano, Paola Piacenza e Roberto Roversi ha concluso la valutazione dei testi in gara nel contest intitolato al giornalista e critico cinematografico piacentino Giulio Cattivelli.

Ricordiamo le quattro categorie in cui erano suddivisi i testi ammessi alla quinta edizione del concorso: recensione-tweet (max 280 battute) su un film distribuito nella stagione, recensione standard (1.000-1.400 battute) su un film distribuito nella stagione, recensione lunga (2.000-4.000 battute) su un film che riguarda i problemi del mondo del lavoro, saggio breve (5.000-7.000 battute) su una serie tv.

La serata delle premiazioni è stata trasmessa dalla televisione Telelibertà (in contemporanea anche su https://teleliberta.tv/live#livestreamsabato sera 11 febbraio 2023 e si può guardare interamente sul canale YouTube di Cinemaniaci (https://www.youtube.com/c/cinemaniaci). A premiare i ragazzi e le ragazze vincenti sono stati Donatella Ronconi e Alessandro Miglioli (Libertà), Lorena Cattivelli (figlia del grande Giulio), Ivo Bussacchini (Cgil – Camera del Lavoro di Piacenza), Gianluigi Molinari (Regione Emilia-Romagna), Christian Fiazza (Comune di Piacenza) e Mario Magnelli e Luca Groppi (Fondazione di Piacenza e Vigevano). Serata condotta da Michele Rancati, con Piero Verani e Mauro Gervasini; regia di Giuseppe Piva. Con la partecipazione di Flora Croce che ha interpretato brani tratti da “Tempi moderni” e “La classe operaia da in paradiso”, due delle opere selezionate per la sezione tematica Cinema al Lavoro.

Di seguito le recensioni premiate con le relative motivazioni. Oltre ai quattro testi premiati per ciascuna sezione del concorso, ci sono altri riconoscimenti: le menzioni speciali e la targa Enrica Prati.

Il direttore artistico del Premio Cat Piero Verani ringrazia tutte le persone che hanno collaborato alla riuscita della sesta edizione del Premio Cat e, grazie al sostegno confermato da tutti i partner di Cinemaniaci, annuncia che nel 2023 si terrà la settima.

Premio Cat 2022 – Sesta edizione

Menzioni speciali

Licorice Pizza

San Fernando Valley, isola che non c’è. Wendy e Peter corrono per diventare grandi. Uncino non li insegue, è rimasto senza benzina. Ad annaspare. Perché nelle strade c’è il sangue e arriva alle ginocchia, canta un ragazzo, tale Jim Morrison, che adulto non sarebbe diventato mai.

Carlo Giuliano, 23 anni Roma, Università La Sapienza

Motivazione

L’autore sceglie una forma originale che restituisce l’inafferrabilità del film, la sua dimensione onirica e immaginifica.

America latina

Il cinema dei fratelli D’Innocenzo è munifico. Elargisce a tutti noi, gratuitamente, sedute psichiatriche costanti, taumaturgiche, redentrici. Ci scaglia davanti agli occhi, senza alcun pudore, il putridume umano, il suo avido istinto ancestrale, il concetto di irreversibilità.

Il personaggio viene assorbito dal contesto, che lo incatena divorandogli il fegato, come Prometeo. L’espiazione e il riscatto sono l’eventualità remota, l’alternativa ultima, non la soluzione. Il terzo gioiellino dei D’Innocenzo, non è l’eccezione: l’America, teatro dei sogni e delle massime aspirazioni, s’infrange nella lugubre e stagnante, torbida e intorpidita campagna latina. Uno scenario bucolico, ma che della poesia ha poco, che fa da sfondo all’esistenza schiva di Massimo Sisti, che scendendo una scalinata dantesca si ritrova intrappolato in un dramma che non rammenta, ma di cui rimane ossessionato. Ancora una volta, i registi materializzano in maniera sublime l’essenza evanescente della solitudine, che in America Latina è sottocutanea, offuscata, ma veemente, impetuosa.

La composizione serafica e lucente della sua (non) famiglia, ninfe giulive e stucchevoli astrazione di una mente lesionata, ricorda il Giardino delle Vergini Suicide di Sofia Coppola. Il tutto condito dalla disturbante e conturbante musica dei Verdena, la quintessenza dello squallido, l’incarnazione dell’irreversibile.

Antonio Lefons, 19 anni Ferrara, Alma Mater Studiorum

Motivazione

L’autore, pur non facendo riferimento all’intreccio del film, coglie perfettamente l’essenza perturbante che da sempre connota il cinema dei Fratelli D’Innocenzo. Appaiono pertinenti sia il riferimento all’esordio di Sofia Coppola che all’apporto straniante delle musiche dei Verdena.

Spencer

L’impianto formale di “Spencer” verte su un dissidio: quello tra le immagini, calibratissime, di un formalismo quasi soffocante, e la musica, che quelle immagini sembra volerle scardinare. Da una parte, quindi, l’eleganza e il controllo del quadro propri del cinema di Larraín – che la fotografia analogica di Claire Mathon ammanta di toni invernali e suggestioni gotiche –, corrispettivo visivo dell’esistenza fastosa ma rigorosamente impostata degli Windsor; dall’altra le sonorità ondivaghe e consapevolmente invasive, tra jazz e musica barocca, con cui Jonny Greenwood insidia le geometrie dell’inquadratura. È in questa bipolarità estetica che si inserisce la sofferenza di Diana, soverchiata dagli ostacoli di una riunione familiare natalizia, smarrita in un Norfolk che diviene nebbiosa terra di spettri e finestra sul passato. Lo sguardo elusivo e velato di Kristen Stewart, le movenze nervose, da ballerina, rifuggono un’esistenza confezionata, mentre il cinico controllo dell’immagine pubblica e privata – la vita dei reali è semplice valuta, merce mediatica – è travolto dai tumulti interiori della protagonista, incanalati dalla musica. Che infine prende il sopravvento: Larraín affida la liberazione della principessa infelice a un vertiginoso flusso visivo subordinato alla colonna sonora; Diana danza nei corridoi di Sandringham e, per un attimo, la favola eclissa il dramma reale.

Giovanni Ceccatelli, 24 anni Firenze, Alma Mater Studiorum

Motivazione

Ben scritto, ben strutturato, interessante il confronto tra musica e immagini. Un buon lavoro, curato, come se fosse scritto da qualcuno che partecipa a un concorso e vuole vincere un premio.

 Chi lavora è perduto

“Lei finirà all’inferno?”, chiede lo psicanalista a Bonifacio, “E a me cosa m’importa. Basta che mi assumano e buonanotte ai suonatori”, risponde lui. Chi Lavora è Perduto è un monito anarchico. Il regista, amplificando il volume dei pensieri del protagonista, mette in guardia lo spettatore dall’arrovellarsi il cervello con le ideologie: “Essere o non essere? Boh, Vattelapesca”.

Bonifacio, dopo il diploma da disegnatore, il servizio militare e diversi colloqui, viene finalmente assunto in azienda. È svogliato, indolente verso la società che lo circonda. Lontani sono i tempi della sua fede comunista, rossa e colorata come l’unica scena non in bianco e nero dell’intera pellicola – che potrebbe ricordare i contrasti cromatici di I Funerali di Palmiro Togliatti dipinti da Renato Guttuso. Adesso Bonifacio vaga per una luminosissima Venezia, ricordando la sua infanzia carognesca, la maldestra storia d’amore con Gabriella e i tempi dell’attività politica. Gli unici compagni ancora intrappolati nella fede per il socialismo sono chiusi in manicomio, apparentemente innocui ma considerati pericolosi e sovversivi dalle istituzioni. L’autore prende magistralmente in giro i tre pilastri conservatori: Dio, che sbeffeggia in dialetto veneto la maledizione con cui ha condannato per l’eternità Adamo e tutta la razza umana, quella di lavorare; la famiglia, impersonata da un padre con lo stesso tono di voce di Mussolini ma che impartisce ordini mai rispettati dal figlio; la patria, o almeno l’Italia anni sessanta, quando Gabriella e Bonifacio si trovano costretti, senza molte remore, ad arrivare fino a Ginevra per abortire.

Il film esce in sala nel 1963, opera prima del trentenne Tinto Brass, inizialmente bloccato dalla censura che il regista riesce ad aggirare semplicemente cambiando il precedente titolo: da In Capo al Mondo (ideale destinazione delle peregrinazioni del vecchio gruppo di amici) ad un più netto Chi Lavora è Perduto. La storia di Bonifacio è a tratti accomunabile a quella dell’autore stesso: Brass tornerà sul tema politico nella sua pellicola successiva, Ça Ira, Il Fiume della Rivolta, lavoro d’archivio sulle rivoluzioni novecentesche; fa poi suo il genere erotico per il resto della sua carriera e per questo sarà consacrato al grande pubblico. Abbandona, almeno in apparenza, ogni ideale. Facendo attenzione, però, è proprio nel suo disimpegno, nel voler guerreggiare contro la morale, che si notano gli apici della sua lotta. Una battaglia che non si limita ad abbattere le sovrastrutture, ma che va fin nelle fondamenta della società, criticata appunto nel suo prendersi troppo sul serio.

La colonna sonora è giocosa, sognante e quasi infantile. La tematica anarchica è pienamente rispettata anche nella messa in scena, ricca di sperimentazioni: da inquadrature ritagliate intorno il volto del padre autoritario, ad un montaggio che ricorda dei colpi di pistola, spezzato e d’impatto. Siamo immersi nei pensieri di Bonifacio e nelle sue contraddizioni, attraverso un flusso di coscienza che accompagna tutto il film.

È lontano “[…] quel maggio in cui l’errore | era ancora vita, in quel maggio italiano | che alla vita aggiungeva almeno ardore,” di cui scriveva Pier Paolo Pasolini nel poema Le Ceneri di Gramsci. Bonifacio con i cadaveri di questo passato ci va in barca fino all’Isola di San Michele, sede del cimitero della laguna, e nelle tombe cicca le sigarette visto che, come ci tiene a precisare, “tra ceneri e cenere c’è poca differenza”. Venezia, la città più precaria e viva che ci sia, calpestata e consumata, accoglie il suo girovagare. Nell’ultima scena, ambientata davanti al Molino Stucky della Giudecca, il libero fluire fantastico dei pensieri del giovane errante si interrompe per i rumori industriali. Dio, tra tutti i “santi benedetti dal miracolo economico”, fa l’occhiolino a Bonifacio in segno di complicità, o forse per prenderlo in giro. Oggi l’antica fabbrica ripresa nella sezione finale è, infatti, un albergo di extralusso.

Jacopo Babuscio, 1998 Benevento, Alma Mater Studiorum

Motivazione

L’autore articola in modo ricco, ben strutturato, chiaro e accattivante, con riferimenti puntuali, la propria analisi. La resa di linea narrativa e relative implicazioni è di alto livello e merita una menzione.

Tra due mondi

Sei mesi trascorsi tra centri per l’impiego disfunzionali, lavori precari al di sotto del minimo salariale, contesti sociali e urbani marginali. Questo il materiale all’origine di “Le Quai de Ouistreham”, reportage autobiografico della giornalista Florence Aubenas nato dall’esigenza di raccontare mediante l’esperienza, e non solo tramite l’osservazione, l’impatto della crisi del 2008 sul mercato del lavoro; un’indagine il cui valore politico rimane inalterato oltre un decennio più tardi e di cui Juliette Binoche commissiona l’adattamento e la regia a Emmanuel Carrère. Marianne, affermata scrittrice interpretata dalla stessa Binoche, penetra nel mondo del precariato francese fingendosi disoccupata e individua una sintesi della realtà che intende denunciare nel traghetto che dal porto di Ouistreham attraversa la Manica. Sta al gioco: accetta un impiego e la vita che questo comporta, si immerge in un contesto lavorativo notturno, popolato da inservienti invisibili che per meno di nove euro l’ora puliscono le cabine con ritmi impossibili. Un microcosmo tratteggiato dal film con un montaggio teso a restituire nella successione delle inquadrature la costante assenza di tempo e la materialità della pratica lavorativa – le effettive sequenze di azioni reiterate, interiorizzate, calibrate per economizzare fatica e secondi –, mostrata nella sua dimensione più fisica e tangibile. Il duplice apporto del direttore della fotografia Patrick Blossier e dell’operatore Philippe Lagnier è organico a questa visione: l’esperienza di Marianne si traduce in immagini austere – focalizzate sul rapporto che gli ambienti intrattengono con i personaggi, interpretati da attori non professionisti, alcuni reali inservienti sul traghetto –, che inglobano all’interno del racconto segmenti svincolati dalla sceneggiatura, registrazioni estemporanee della realtà lavorativa e urbanistica delle aree portuali del Calvados.

L’urgenza documentaristica, già connaturata all’inchiesta di Aubenas, e il cinema narrativo si compenetrano, dunque, in un territorio estetico ed etico affine a quello frequentato da Carrère in ambito letterario. Per l’autore francese tornare a raccontare “vite che non sono la mia” implica, qui, percorrere a ritroso la stratificazione sociale e distanziarsi dal contesto alto-borghese, allo scopo di rilevare i tratti più frustranti e iniqui del paese reale, ma anche, a un secondo livello di lettura, di interrogarsi sulle finalità e sul perimetro morale della professione di scrittore. Un nodo tematico, quest’ultimo, di particolare rilevanza ed evocato non solo ponendo la protagonista in situazioni eticamente scomode – è lecito fingere e spiare le vite altrui pur di smascherare le contraddizioni della società? – ma anche, più sottilmente, disseminando lapsus e automatismi che sfuggono al travestimento sociale della donna e ne rivelano il distacco culturale, e quindi anche lo squilibrio di potere, rispetto alle colleghe. Marianne utilizza un vocabolario forbito, si muove in auto, può concedersi il lusso di perdere tempo, senza dover equiparare, come invece l’amica Christelle, il tempo libero alle ore lavorative sprecate: il dislivello economico, insomma, è solo un primo grado di separazione tra i due mondi, a cui consegue una biforcazione sistemica che dalla situazione lavorativa si irradia a tutti gli ambiti della vita quotidiana. Se dunque l’esperienza di Marianne si concretizza, infine, in un’opera letteraria di sentita denuncia, risulta tuttavia significativa la prospettiva disincantata e consapevole con cui Carrère e Binoche constatano la permanenza strutturale di enormi polarizzazioni socio-economiche, originate proprio dall’erosione della dignità del lavoratore. L’utopia interclassista non sopravvive ai sei mesi di indagine della protagonista: l’esperimento antropologico termina, tra i due mondi permane una distanza sociale abissale e, come chiosa lucidamente Christelle nella battuta che chiude il film, ognuno resta al proprio posto.

Giovanni Ceccatelli, 24 anni Firenze, Alma Mater Studiorum

Motivazione

Ottimo lessico e consapevolezza della materia, ben equilibrata l’analisi del film con corretti riferimenti alle opere, anche letterarie, dell’autore.

Ted Lasso

Quando Jason Sudeikis, parlando dei risvolti narrativi di “Ted Lasso”, chiama in causa la saga di “Star Wars” propone un accostamento meno inverosimile o iperbolico di quanto possa in un primo momento apparire. Certo, nel 2013 in pochi, forse solo lo stesso Sudeikis e Brendan Hunt, avrebbero scommesso sul futuro di Ted Lasso e di Beard, i personaggi interpretati dai due attori in alcuni sketch pubblicitari di NBC. Per il format contenuto e rapido degli spot l’idea era perfetta già all’epoca: promuovere la Premier League presso gli spettatori statunitensi, e al contempo ironizzare sulla presunta  ignoranza calcistica di questi ultimi, immaginando le disavventure di un allenatore di football americano alla guida del Tottenham. Quasi nessuno – ci sono voluti gli investimenti di Apple Tv+ nel 2019 – immaginava però che una serie basata su quegli stessi sketch potesse ambire, nel giro di due sole stagioni, ad ampliare a tal punto la propria complessità interna, andando ad articolarsi in strutture e tematiche archetipiche che spaziano dal desiderio di affermazione individualistica ai delicati legami tra padri e figli. Eppure il tempo ha dato ragione a Sudeikis e Hunt: i meccanismi narrativi messi in moto dall’arrivo di Ted sulla panchina del Richmond, immaginaria squadra di calcio inglese, finiscono per trascendere la premessa tipicamente da sitcom che aveva originato la serie – per molti versi una variazione del classico “fish out of water”, qui forte di uno sfondo inusuale come quello calcistico –, lavorando su profonde conflittualità umane non poi così distanti, se vogliamo, da quelle tracciate in tutt’altro contesto e con un differente registro da George Lucas.

Per intuire che “Ted Lasso” non fosse destinata a divenire una barzelletta tirata per le lunghe sarebbe già stato sufficiente intercettare alcuni segnali all’interno dei primi episodi della stagione inaugurale. Se è vero, infatti, che la serie non rinnega mai il carattere scopertamente assurdo del concept di fondo, risulta però evidente l’abilità degli sceneggiatori nell’operare una costante espansione, ragionata e imprevedibile, delle possibilità e delle ambizioni drammaturgiche del racconto. I continui fraintendimenti in cui da subito inciampa Ted, spirito gioviale e gentile alle prese con un ambiente che gli è distante sul piano culturale oltre che, in un primo momento, decisamente ostile, scandiscono il ritmo leggero degli episodi – ed è lampante, qui, la chirurgica conoscenza dei tempi comici televisivi che contraddistingue tanto Sudeikis e Hunt, veterani del SNL e della sitcom prime-time, quanto il co-autore della serie Bill Lawrence –, ma sono al contempo organici a un’acuta problematizzazione della visione ottimistica e anti-individualistica proposta dall’allenatore. Non vengono meno, dunque, la fulminante efficacia autoconclusiva o lo spirito caricaturale degli sketch originari, e neanche certe soluzioni formali fedeli alla tradizione della sitcom (i setting ricorrenti, la struttura modulare e ciclica degli episodi, la studiata cadenza di punchline e deadpan); piuttosto si nota come dietro ogni guizzo comico tendano a insinuarsi, in modo spesso non immediatamente avvertito dallo spettatore, una densità narrativa e una complessità emotiva che in virtù dell’atipica genesi della serie non potevano essere date per scontate.

In quest’ottica appare particolarmente indicativo il lavoro di scrittura svolto sui singoli personaggi, sempre portatori, in superficie, di una cifra comica riconoscibile, e al contempo dotati di un’interiorità spesso occultata, che tuttavia ne determina la funzione nell’economia del racconto corale. Si pensi, ad esempio, alle figure di Rebecca e Roy, plasmate tramite scelte interpretative antitetiche ed efficacissime da Hannah Waddingham e Brett Goldstein: i due personaggi, all’apparenza scontrosi e immuni alla gentilezza di Ted,  sono in primis utilizzati come contrappunto ruvido e un po’ cinico allo humour candido di Sudeikis. Contemporaneamente, tuttavia, entrambi si rivelano impegnati in un laborioso percorso di riscatto e reinvenzione identitaria, Rebecca sfidando il becero maschilismo del mondo calcistico e prendendo le redini del Richmond, Roy accettando il declino della propria carriera di calciatore.

Ancor più vistosa è la stratificazione di scrittura che caratterizza il personaggio di Nate, la cui dialettica con Ted, mentore e padre simbolico, costituisce uno dei nuclei tematici maggiormente complessi e ambiziosi affrontati dagli sceneggiatori. Seppur stemperato dai toni perlopiù distesi e accoglienti di “Ted Lasso” l’arco narrativo di Nate, in un primo momento introdotto come goffo elemento di cringe comedy, è la genesi di un villain in piena regola. L’evoluzione dell’impacciato kit-man – la cui etnia asiatica gioca un ruolo sottile ma innegabile nei rapporti di forza con gli altri personaggi – è centellinata e sempre adombrata (brillante l’indicatore fisico: gli scuri capelli di Nate sbiancano del tutto in una manciata di episodi), calibrata in modo da risultare speculare alle buone intenzioni di Ted. E non si tratta solo di una conflittualità isolata che, dichiaratamente, guarda a “Star Wars” in una prospettiva metatestuale, bensì di una significativa rilettura critica degli assunti teorici su cui era nata la serie. A essere messe in discussione non sono le buone intenzioni di Ted, che restano sempre saldamente il perno morale del racconto, bensì, in modo più esteso, la funzionalità e il senso stesso dell’esportazione di certi valori statunitensi incarnati dall’allenatore, in questo caso destinati a generare una reazione opposta rispetto a quella desiderata.

La serie amalgama quindi i registri, incamera tematiche e spunti, cerca l’affondo slapstick senza mai sopire tensioni sotterranee di cui Ted si fa epicentro; non è un caso, in tal senso, che proprio al parziale fallimento della filosofia dell’allenatore si affianchi una progressiva immersione nei traumi e nelle fragilità del protagonista stesso. Ancora una volta: la contagiosa comicità di Sudeikis, tutta giochi di parole, gag fisiche e riferimenti pop, non si eclissa, ma ne viene ridimensionata la funzione; Ted Lasso non è più solo la macchietta degli sketch di NBC, né un’ingenua deviazione rispetto alle maschere ciniche di Ricky Gervais o Larry David. Dietro all’entusiasmo e all’ottimismo a tutti i costi si annida il terrore del fallimento umano, la paura di non riuscire a tirare fuori il meglio dalle persone. E il fatto che queste paure trovino effettiva realizzazione nel racconto, mostrando le zone d’ombra, il “lato oscuro” di personaggi apparentemente caricaturali, confligge, forse, con le aspettative degli spettatori attratti dall’anima più confortante di “Ted Lasso”; senza dubbio, però, certifica il coraggio creativo degli autori, e ne rivela l’ambizione di riconfigurare, con uno spirito sempre popolare e accessibile, i confini e gli obiettivi della sitcom nordamericana.

Giovanni Ceccatelli, 24 anni Firenze, Alma Mater Studiorum

Motivazione

Lavoro accurato a tutti i livelli: per qualità della scrittura, del contesto storico, del sistema di citazioni e dell’analisi socio-culturale.

Targa Enrica Prati

Triangle of Sadness

 “Triangolo della tristezza”: termine utilizzato nel mondo della moda per indicare lo spazio tra le sopracciglia, dove le rughe manifestano le difficoltà della vita. Questo tratto sembra mancare a tutti gli ospiti a bordo di uno yacht sfarzoso tranne che a Carl, un modello sulla trentina, che invece è lì solo grazie alla sua fidanzata influencer Yaya. La bolla lussuosa in cui è permesso chiedere addirittura l’impossibile, come pulire le vele sporche inesistenti, ha vita breve. In Forza maggiore (2014) a cambiare le regole del gioco era una valanga, questa volta sono una tempesta e un attacco pirata. Con la nave affondano anche i privilegi dei pochi superstiti, costretti a lottare per la propria sopravvivenza su un’isola deserta. In un contesto che ricorda Il signore delle mosche, si insedia una nuova gerarchia: il palazzo del potente diventa una scialuppa a luci rosse, il banchetto offre solo dei bastoncini pretzel e il cacciatore prende la forma di un miliardario nerd. Ai deboli come Carl, si presenta una possibilità di riscatto, ma al caro prezzo di trasformarsi da vittime in carnefici. Il regista svedese Östlund naviga con maestria la sua commedia grottesca, in cui ogni certezza può oscillare da un momento all’altro e prendere forme inaspettate, come quella di una conversazione tra un russo capitalista e un capitano americano comunista su uno yacht da 250 milioni di dollari.

Anna Vullo, 24 anni Piacenza, Alma Mater Studiorum

Motivazione

L’autrice colloca la riflessione, elaborata con un buon tenore di scrittura, all’interno del percorso del regista, inserendo riferimenti interessanti per comprendere l’opera più a largo raggio.

Premio Cat alla Migliore recensione-tweet

Vortex

Due anziani, un interno, gli ultimi lacerti di vita strappati all’oblio. Noé guarda in faccia il crepuscolo, attenua il virtuosismo: traccia un oscuro vortice di corpi appassiti, sogni cinefili, sentimenti imperituri. “Per coloro il cui cervello si decomporrà prima del cuore”.

Giovanni Ceccatelli, 24 anni Firenze, Alma Mater Studiorum

Motivazione

Breve testo di grande suggestione, che rileva la cesura stilistica del regista argentino rispetto alle sue opere precedenti ed esprime giustificata ammirazione per il miglior film dell’anno.

Premio Cat alla Migliore recensione standard

Crimes of the Future

Le mutazioni del corpo, che un tempo nel cinema di Cronenberg si manifestavano in modo palese e materico, si sono fatte interne, sotterranee – non solo i tumori che il personaggio di Mortensen si fa crescere tra un organo e l’altro, ma lo stesso sistema erogeno di ogni individuo, che sembra semplicemente impazzito. Si penetra e si viene penetrati grazie a bisturi controllati a distanza. La chirurgia come pratica sessuale e come forma d’arte: i protagonisti sono due performer che inscenano le loro operazioni come spettacoli d’avanguardia, così da esternare se stessi, ciò che si ha dentro, per davvero. Gli strumenti dell’artista sono gli stessi dell’erotomane, e tutto passa per il corpo, in una confusione totale tra dolore e piacere. L’arte, il sesso, ma anche il cibo – Crimes of the Future si apre su un bambino piegato a mangiare della plastica. Ma le evoluzioni qui immaginate, con il corpo che risponde alle rinnovate esigenze di alimentazione, sesso e spettacolo, sono dettate dal nuovo mondo o è invece il mondo a farsi nuovo grazie ai dettami del corpo? Così come tutta la filmografia di Cronenberg, che risponde ai mutamenti della carne o cerca di imporli? “Il sesso deve essere ancora inventato” disse una volta Marco Ferreri, per molti un regista venuto dal futuro. Cronenberg fa esattamente questo: inventa il sesso. E lo fa con il talento e l’ambiguità di un grande visionario.

Jacopo Abballe, 22 anni Latina, Accademia di Belle Arti di Roma

Motivazione

Analisi puntuale ed efficace che si interroga e interroga il lettore su una nuova sfida prometeica. Con proprietà di linguaggio, il testo traduce ‘chirurgicamente’ l’organicità di David Cronenberg e il perpetuo lavoro della creazione.

Premio Cat alla Migliore recensione lunga (Cinema al Lavoro)

La classe operaia va in paradiso

Anno 1971, il Sessantotto è ormai tramontato e sull’Italia aleggia il feroce spettro degli anni di piombo. Nel settembre di quell’anno viene distribuito un film destinato a far discutere: La classe operaia va in paradiso, pellicola del regista Elio Petri, che prosegue la collaborazione con Ugo Pirro a un anno di distanza da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Gian Maria Volonté è di nuovo attore protagonista e il tema politico si fa ancora più centrale. Il film permette allo spettatore di entrare in una fabbrica lombarda e nella vita di Ludovico Massa, detto Lulù, operaio modello e stakanovista, apprezzato dai superiori e mal sopportato dai colleghi. Lulù si divide tra i ritmi infernali della fabbrica e i bui ambienti del piccolo appartamento in cui convive con la parrucchiera Lidia e il figlio di lei. Massa è un operaio privo di coscienza di classe e grato al cottimo, che gli permette di comprare beni di consumo. Egli rappresenta l’emblema di quel livellamento delle classi sociali anticipato anche da Pasolini nell’Apologia a commento de Il PCI ai giovani! (1968): il neocapitalismo è il cavallo di Troia che ha permesso alla borghesia di vincere la guerra e trasformare gli operai in finti borghesi. Infatti, nell’oscurità della casa di Massa, brilla la luce abbagliante del televisore e si odono i suoni del casco spaziale del piccolo Arturo, mentre all’interno della fabbrica il sudore bagna la fronte dell’operaio e i rumori assordanti coprono le sue parole. L’alienazione, tema centrale del film, nasce nella fabbrica e si annida nell’operaio a tal punto da modificarne il modo di concepire la realtà: Lulù pensa al proprio organismo come al sistema operativo di una fabbrica e osserva tutto in un’ottica di lavoro e profitto. Persino il sesso viene concepito dall’uomo come un’operazione meccanica, una procedura analoga ai gesti ripetuti che compie di fronte ai macchinari. La tematica erotica è importante proprio perché simbolica del disagio e viene affrontata su piani diversi. Lulù non riesce ad avere una vita sentimentale soddisfacente a causa degli sfiancanti ritmi di lavoro e sembra quasi sostituire all’attività sessuale quella lavorativa. Come se non bastasse, all’ingresso della fabbrica l’altoparlante trasmette un messaggio dei padroni, i quali invitano i propri operai a trattare le macchine «con amore». L’uomo si fa macchina e la macchina si fa uomo: i ruoli si mischiano e si confondono in un’inquietante metamorfosi. Il punto di svolta della narrazione è rappresentato da un incidente che Lulù ha sul lavoro. Da questo momento in poi, qualcosa si spezza nella psiche dell’operaio: l’uomo-ingranaggio si è rotto, non si sente più parte della catena di montaggio ed è costretto a fermarsi e a guardare da una diversa prospettiva la propria miseria quotidiana. Così, quelli che sembravano nient’altro che piccoli segni di stanchezza si rivelano essere segnali della caduta verso il baratro. Lulù inizia a prendere coscienza dei propri tic nervosi, dei propri pensieri distorti e sente il bisogno di far visita al Militina, un ex operaio ed ex compagno uscito di senno e ora paziente in un manicomio. Salvo Randone presta la sua mimica multiforme a un personaggio indimenticabile, che funge da prefigurazione del futuro di Lulù e dei suoi colleghi operai. In seguito alla visita, Lulù ha una reazione e cerca di cambiare rotta avvicinandosi agli studenti manifestanti e ai sindacati, realtà che fino a quel momento aveva ignorato. Elio Petri predilige l’indagine complessa alle categorie manichee e finisce per comporre ritratti caustici delle varie fazioni in gioco. All’indifferenza dei padroni, quasi invisibili come coperti dalla coltre del monte Olimpo, si contrappongono l’opportunismo dei sindacalisti e l’astratto linguaggio degli studenti militanti. Lulù, l’operaio, è solo una pedina in questo marasma confusionale e scoprirà a sue spese che il paradiso della classe operaia non è che uno strano sogno, anticamera della pazzia.

Leonardo Chiavarini, 23 anni Piacenza, Università degli Studi di Milano

Motivazione

L’autore colloca il film nel suo tempo, dà conto del clima politico che si respirava e di come questo influenzava il sentire comune e la critica cinematografica. Non disperde il plot, fornendo gli elementi necessari all’approfondimento critico. Fornisce un’analisi personale, ma ben documentata e ricca di riferimenti, anche extra-cinematografici.

Premio Cat al Miglior saggio breve

Scissione

 “Ci sono buone e cattive notizie riguardo all’inferno. La buona notizia è che l’inferno è soltanto il prodotto della macabra immaginazione umana. La cattiva è che quello che gli umani possono immaginare, di solito riescono anche a crearlo”. Recita così una delle grandi massime di Scissione (Severance), serie rivelazione del 2022 – già rinnovata da AppleTV+ per una seconda stagione – che fin dal primo episodio ci offre una delle definizioni più azzeccate del concetto di distopia. Alla regia il graditissimo Ben Stiller, che torna a lavorare con Adam Scott e gli affianca un cast di primissima scelta: fra gli altri John Turturro, Christopher Walken e Patricia Arquette. Da odioso aguzzino aziendalista che era ne “I sogni segreti di Walter Mitty”, qui Adam Scott si ritrova dall’altra parte della scrivania, vittima protagonista di Severance: Mark Scout lavora per una multinazionale dai dipartimenti tentacolari che produce ogni tipo di bene di consumo. In realtà gli scopi della Lumon sono alquanto oscuri e il suo vero fiore all’occhiello è la “scissione”, una procedura chirurgica irreversibile che separa la coscienza dei suoi impiegati in due entità distinte, una per il lavoro e l’altra per il mondo esterno. Le due coscienze convivono sempre nello stesso corpo, ma si alternano automaticamente al timbrare del cartellino: Mark S. si alza dalla scrivania, ma a uscire dall’ufficio è solo Mark Scout. Nessuno dei due sa o ricorda nulla della vita dell’altro e questo, vanta la Lumon, crea l’equilibrio sognato da qualunque azienda e (apparentemente) da qualunque impiegato: non si porta lo stress personale al lavoro, ma neanche si ha la percezione di aver lavorato. Per la coscienza che rimane “là sotto” però, è tutt’altro paio di maniche. Perché creato ex novo, azzerato, senza alcun ricordo precedente all’operazione, il doppelgänger non avrà neanche memoria del mondo esterno. Si “sveglierà” ogni giorno senza mai essere uscito, riprendendo a lavorare senza soluzione di continuità: una prigione, una schiavitù. Prendere tutti gli incomodi di una vita, buttare via la chiave e diventare i secondini di se stessi. Se poi Mark S. decidesse di licenziarsi – sempre ammesso che Mark Scout acconsenta – semplicemente smetterebbe di esistere: licenziarsi equivarrebbe al suicidio; vita e lavoro più fusi che mai; il sogno produttivistico dell’incubo capitalista. Ma da semplice distopia del mondo lavorativo, Severance riprende molti altri temi delle fantascienze postmoderne, dalla dissociazione cognitiva alla percezione di realtà. Scenografie e ambientazioni – caratterizzate da queste scale di grigi, verde e blu dal fortissimo impatto estetico – si rifanno al retrofuturismo, sempre molto attraente da vedere su schermo: grandi passi in avanti in alcuni campi della scienza medica, ma computer ancora a tubo catodico e macchine fotografiche ancora a click esterno. Nell’immaginario e nel tema di scissione di realtà ricorda un po’ Maniac, miniserie Netflix con Jonah Hill ed Emma Stone. Nel livello di chiarezza, riesce a eguagliare se non addirittura superare i molti episodi di Black Mirror dedicati alle coscienze clonate e alla loro condizione di schiavitù. Ma fu soprattutto Philip K. Dick, maestro della letteratura distopica postmoderna, a intuire le ricadute schizofreniche di questi modelli a Velo di Maya. Nel suo romanzo “Un oscuro scrutare” del 1977 – che Richard Linklater ha così ben trasposto su schermo nel 2006 – Dick immagina una società divisa fra poliziotti e tossicodipendenti. In giro circola una droga pericolosissima, la Sostanza M come Morte: chi la assume sperimenta una scissione dei propri emisferi, fino alla schizofrenia. E il processo, come in Severance, è irreversibile: anche dopo una sola assunzione, non ci si può disintossicare, perché l’astinenza da M conduce alla Morte. La polizia ha agenti sotto copertura fra i tossicodipendenti e viceversa, quindi non si conosce l’identità degli infiltrati perché gli alti vertici potrebbero essere compromessi. Così, quando un agente comincia a farsi un nome nelle piazze di spaccio, i suoi superiori (ignari) gli segnalano un nuovo pesce grosso su cui indagare: se stesso. Passerà dodici ore al giorno da spacciatore e le altre dodici a spiarsi da solo, ricordando sempre meno della vita dell’altro se stesso, perché nel frattempo la scissione è aggravata dal consumo costante di Sostanza M. È chiaro che il tema del doppio non nasce con Dick e non si esaurirà in Severance, ogni volta strumento delle inquietudini dell’attuale: nel ’77 era l’oppio, l’oppio dei popoli; oggi è il lavoro. E se fosse solo questo, un distrattore? Se il lavoro di Mark S, “importante e misterioso”, non producesse nulla in realtà? Un suo collega è convinto che solo un evento cataclismico potrebbe giustificare contromisure tanto gravi come la scissione: “Forse stiamo ripopolando gli oceani” – afferma, non avendo contezza dell’esterno. Un altro collega pensa solo che stiano “togliendo le parolacce dai film”. In un’intervista del 1975, parlando con estrema profondità (mai davvero compresa) della critica di Fantozzi al mondo del lavoro, Paolo Villaggio spiegava: “Lui vive in una dimensione piramidale, in un burosauro. Al vertice della piramide forse, non c’è nessuno. Il mega direttore galattico esiste o no?”. Anche di questo parla Severance: in una realtà dove quella lavorativa è l’unica realtà, l’invisibile datore di lavoro può diventare Dio; il suo manuale di comportamento, la Bibbia. E un qualunque mental coach che all’esterno avremmo considerato un povero ciarlatano, rischia di diventare un nuovo idolo, un vangelo apocrifo da far circolare clandestinamente. Ma in cima alla piramide, direbbe per estensione un ateo, forse non c’è nessuno. O forse, peggio ancora, c’è davvero qualcuno. A rispondere, ancora una volta, Philip Dick con un passo dello scrittore John Collier che (sembra) citò al suo psichiatra nel corso di una seduta: “L’universo è una pinta di birra con molta schiuma e il nostro mondo non è che una bolla in mezzo a tutta quella schiuma. Può capitare che alcuni intravedano il volto di quello che versa la birra e da quel momento per loro niente è più come prima”. Lo psichiatra pensò a Dio, ma Dick sapeva bene che in un inferno come il suo, come il nostro e come quello di Severance, non può che trattarsi del Diavolo. Perché dall’interno di una pinta di birra non ci si imbatte tanto nella faccia di chi l’ha spillata: molto più spesso invece, in quella di un ubriaco. E perché ancora una volta purtroppo, sulla cima di questi incredibili prodotti di denuncia all’attuale, inquietante sistema mondo, ci sono proprio quelle aziende (Apple & Co.) che più hanno contribuito a crearlo, costruendo piramidi alla maniera degli egizi. Come diceva Ricky Gervais per The Morning Show ai Golden Globes 2020 e come direbbe ancora per Severance: “Un dramma superbo sull’importanza della dignità e del fare la costa giusta, realizzato da una compagnia che gestisce fabbriche di schiavi in Cina”.

Carlo Giuliano, 23 anni Roma, Università La Sapienza

Motivazione

Ottima analisi della serie, competente e ben strutturata, che coglie corretti riferimenti letterari e audiovisivi e sa mostrare il paradosso tra contenuto e contenitore.

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