Premio Cat 2021 – Vincitori

Premio Cat 2021 – Vincitori. Dopo un lavoro di selezione preliminare a cura di Cinemaniaci, la Giuria del Premio Cat 2021 costituita dal presidente Mauro GervasiniBarbara Belzini, Ilaria Feole, Ilaria Floreano, Michele Guerra, Paola Piacenza e Roberto Roversi ha concluso la valutazione dei testi in gara nel contest intitolato al giornalista e critico cinematografico piacentino Giulio Cattivelli.

Ricordiamo le quattro categorie in cui erano suddivisi i testi ammessi alla quinta edizione del concorso: recensione-tweet (max 280 battute) su un film distribuito nella stagione, recensione standard (1.000-1.400 battute) su un film distribuito nella stagione, recensione lunga (2.000-4.000 battute) su un film che riguarda l’11 settembre 2001, saggio breve (5.000-7.000 battute) su una serie tv.

La serata delle premiazioni è stata trasmessa dalla televisione Telelibertà (in contemporanea anche su www.liberta.it TV Live) sabato sera 19 marzo 2022 e si può guardare interamente sul canale YouTube di Cinemaniaci (https://www.youtube.com/c/cinemaniaci). A premiare i ragazzi e le ragazze vincenti sono stati Donatella Ronconi e Alessandro Miglioli (Libertà), Lorena Cattivelli (figlia del grande Giulio), Katia Tarasconi (Regione Emilia-Romagna), Jonathan Papamarenghi (Comune di Piacenza) e Mario Magnelli (Fondazione di Piacenza e Vigevano). Serata condotta da Michele Rancati; regia di Giuseppe Piva. Con la partecipazione dell’artista piacentina Letizia Bravi che ha reso omaggio a Monica Vitti e Lina Wertmüller.

Di seguito le recensioni premiate con le relative motivazioni. Oltre ai quattro testi premiati per ciascuna sezione del concorso, ci sono altri riconoscimenti: le menzioni speciali e la targa Enrica Prati.

Il direttore artistico del Premio Cat Piero Verani ringrazia tutte le persone che hanno collaborato alla riuscita della quinta edizione del Premio Cat e, grazie al sostegno confermato da tutti i partner di Cinemaniaci, annuncia che nel 2022 si terrà la sesta.

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Premio Cat 2021 – Quinta edizione

Menzioni speciali

Il buco

Lo stesso anno della costruzione dei 31 piani del Pirellone, in Basilicata si scende 683 metri in profondità. 11 anni dopo il già cult “Le Quattro Volte”, Frammartino torna a pregare nella natura, fischiando, urlando e scavando la superficie del buio.

Jacopo Babuscio

22 anni, Benevento, Alma Mater Studiorum

La 25a ora

Sono passati quasi vent’anni dall’uscita de “La 25ᵃ ora”, uno tra i più famosi film di Spike Lee, ma nonostante ciò, parlarne fa sempre un certo effetto: il film è invecchiato benissimo e anzi, nel corso di questi anni ha potuto sempre più assurgere allo stato di “classico”, tanto da comparire nella maggior parte dei corsi e dei manuali di cinema. Il film racconta l’ultimo giorno di libertà di Monty Brogan (Edward Norton), uno spacciatore di droga, scoperto dalla polizia grazie a una soffiata e condannato dal tribunale a scontare sette anni di carcere. Monty si muove tra i luoghi della sua New York nel tentativo di capire chi lo abbia tradito, ma soprattutto di trascorrere gli ultimi momenti di libertà con la fidanzata Naturelle (Rosario Dawson) e gli amici di una vita: il nevrotico agente di borsa Frank (Barry Pepper) e il timido insegnante Jacob (Philip Seymour Hoffman). “La 25ᵃ ora” è un film rimasto nella memoria collettiva, non solo grazie alla qualità tecnica della regia di Lee, alle performance degli attori e alla potenza della trama tratta dall’omonimo romanzo di David Benioff, ma anche per essere stato il primo lungometraggio a mostrare Ground zero: il cratere formatosi in seguito all’attacco e al conseguente crollo delle Torri Gemelle. Il romanzo di Benioff è ambientato a New York, ma prima degli eventi dell’11 settembre 2001, così Spike Lee, che si trovava nella condizione di dover girare un film ambientato nella Grande Mela a neanche un anno dalla catastrofe, decise di rimodularlo e di integrare la vicenda originale del romanzo con gli eventi della Storia recente, riuscendo nel delicato compito di non snaturare nessuna delle due vicende, ma anzi di amplificare la portata e il valore di entrambe. Così che, forse il film che comunica meglio il senso di incertezza e smarrimento provocato dall’11 Settembre, lo fa per ellissi, per non detti, lasciando la tragedia collettiva a fare da sfondo a quella personale e privata. I due drammi sono diversi, ma si guardano negli occhi e si riflettono a vicenda come in uno specchio, quello stesso specchio, davanti al quale Monty (un magistrale Edward Norton) sfoga la sua rabbia verso tutti e tutto, in un monologo destinato ad entrare nella storia del cinema. Monty se la prende con gli abitanti di New York e insultando le varie etnie che la popolano è come se inveisse contro l’intero pianeta, tanto che la scena di odio sembra nascondere una valorizzazione della multiculturalità di cui gode la grande metropoli, ombelico del mondo contemporaneo. New York, per ammissione dello stesso Lee, è proprio il personaggio aggiunto del film. Essa è una città ferita, avvolta da un’atmosfera di malinconica incertezza, comunicata anche attraverso la solenne colonna sonora di Terence Blanchard. Tuttavia la metropoli non è doma, si erge ancora in piedi orgogliosa e viva, nonostante la tragedia dell’11 settembre, che è mostrata come una cicatrice nel paesaggio urbano. Italo Calvino, parlando di una delle città che compongono la sua opera “Le città invisibili”, scrive: «la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano». Beh, New York conterrà per sempre quella cicatrice e Spike Lee ce la mostra, per primo, con coraggio, ma affiancandola alle parole dense di orgoglio newyorkese pronunciate dal suo personaggio Frank, il quale, guardando Ground zero dall’alto del suo nuovo appartamento, risponde così all’amico Jacob, che gli ha appena chiesto se avesse pensato di cambiare casa: «Neanche se Bin Laden ne lanciasse un altro contro il palazzo accanto».
La venticinquesima ora del titolo è quella che Monty non vivrà mai e che immaginerà con il padre (Brian Cox) durante il viaggio in macchina verso il carcere: il futuro perduto del protagonista. Ma forse, la venticinquesima ora è anche la prima di quelle che New York ha trovato la forza e il coraggio di vivere quando tutto sembrava perduto e finito, la prima luce di speranza dopo il buio portato dalla catastrofe.

Leonardo Chiavarini

22 anni, Piacenza, ex Liceo Gioia, Università degli Studi di Milano

La 25a ora

Non è casuale che proprio un regista come Spike Lee abbia firmato, con “La 25a ora”, uno dei più memorabili, crudi e malinconici ritratti della New York orfana delle Twin Towers. Fino dagli esordi alla regia Lee è stato in grado come pochi altri cineasti statunitensi di misurare, tramite il proprio cinema debordante e convulso, la temperatura delle tensioni, delle rabbie represse, delle paure insite nel composito tessuto sociale newyorkese. Dalle strade infiammate dal conflitto etnico in “Fa’ la cosa giusta”, al clima di paranoia in “Summer of Sam”, fino all’incurabile senso di vuoto e di vulnerabilità che permea “La 25a ora”: la New York raccontata da Lee non è mai uno spazio bidimensionale, configurandosi invece ogni volta come presenza senziente e capace di veicolare significati, in rapporto diretto con l’esistenza dei personaggi e con le loro storie.
Il fatto che il materiale letterario alla base del film – l’omonimo romanzo di David Benioff – fosse ambientato in un periodo precedente l’attacco alle Torri Gemelle mette in evidenza la sensibilità del regista, e dello stesso Benioff in veste di sceneggiatore, nell’incorporare all’interno dell’amara parabola umana di Monty Brogan, spacciatore a poche ora da una reclusione carceraria di sette anni, un evento esterno che ha intaccato alle fondamenta il contesto stesso del racconto. La rievocazione del trauma nazionale c’è, ma è tutta in absentia, disciolta all’interno della narrazione, articolata scandagliando il grigiore sporco e funereo dello spazio urbano – efficacemente calcato dalla fotografia di Rodrigo Prieto – e l’esistenza infelice di chi vi è rimasto. Spike Lee lascia fuori campo lo shock visivo dell’attentato, affronta il disastro in modo laterale, accompagnando i titoli di testa del film con i fasci luminosi del Tribute in Light e, soprattutto, tentando poi di carpire – per le strade, lungo i marciapiedi, nei locali – il sentimento, il respiro della città nei mesi successivi. Al centro del racconto ci sono quindi le macerie, umane e sociali, di una New York violata, percorsa a piedi e osservata per l’ultima volta da Monty, a cui Edward Norton presta uno sguardo malinconico, disincantato, rabbioso.
Addensate in un un’unica e insistita sequenza ci sono poi le macerie reali, quelle del cantiere di Ground Zero, il vertiginoso spazio vuoto lasciato dalle Torri Gemelle che si apre immenso davanti all’appartamento del migliore amico di Monty e che per la prima volta, a pochi mesi dall’attacco, viene portato sul grande schermo in un racconto di finzione. Il mesto e sofferente dialogo a camera fissa tra i due amici con cui Monty passerà l’ultima serata di libertà segna, con impatto visivo ed emozionale fortissimo, l’inscindibile commistione tra narrazione cinematografica e attenta ricognizione dello spazio cittadino che caratterizza “La 25a ora”, inchiodando i personaggi davanti all’abisso reale che incombe oltre la finestra. Un gesto cinematografico, questo, dal carico simbolico enorme – corroborato, peraltro, dal crescendo del tema musicale composto da Terence Blanchard – ma che soprattutto presenta i caratteri di una sentita e urgente documentazione storica. In questo senso l’intero film è, oltre che un esempio di grande narrazione americana, anche limpida testimonianza sociale: la vicenda personale del protagonista diviene frammento del diffuso malessere di un intero contesto urbano, e il conclusivo addio di Monty a New York è anche un più ampio e generale commiato a una città, e a una nazione, il cui volto è stato alterato per sempre dall’11 settembre del 2001.

Giovanni Ceccatelli

23 anni, Firenze, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

We Are Who We Are

Nel corso degli otto episodi di “We Are Who We Are”, primo progetto seriale di Luca Guadagnino, la continuità e il tempo del racconto, talvolta, si interrompono improvvisamente: le inquadrature si cristallizzano e dei fermo immagine immobilizzano i personaggi, dando loro un istante di pausa dal fluire della vita. Si tratta di un’intuizione stilistica reiterata e pregnante, organica alla poetica di una serie che ha nei momenti sospesi e transitori il punto nodale della propria ricerca. “Right here, right now” recita infatti il titolo di ciascuno degli episodi, otto frammenti che fotografano un preciso frangente storico – alcuni mesi del 2016, segnati dall’elezione di Donald Trump e dal protrarsi dell’intervento statunitense in Afghanistan – e una fase della vita di due adolescenti, Fraser (Jack Dylan Grazer) e Caitlin (Jordan Kristine Seamón). Due americani, figli di militari dislocati in una finzionale base in Veneto; due individualità apparentemente distanti che tuttavia, nel corso di un’estate, si scoprono accomunate dallo smarrimento a proposito della propria identità (di genere, in primis, ma non solo).
Sono probabilmente l’ampiezza dello sguardo e la volontà di indagare una complessa porzione di realtà a dettare il peculiare impianto narrativo della serie, la cui sceneggiatura, stesa a sei mani da Guadagnino, Francesca Manieri e Paolo Giordano, si articola in un racconto polifonico, ondivago e spesso divergente rispetto alle formule canoniche del linguaggio seriale. Le molteplici traiettorie che compongono il mosaico della storia, così come le varie suggestioni socio-politiche che permeano lo script, seguono percorsi imprevedibili, talvolta solo accennati; un tratto, questo, che accomuna la serie a un altro rilevante esempio dell’odierna produzione televisiva, “Euphoria”, e che risulta indicativo circa la fluidità strutturale che sempre più di frequente connota il teen drama contemporaneo. D’altronde, come già suggerisce la limpida tautologia del titolo, “We Are Who We Are” nega che l’identità di una persona – tanto l’identità in fieri degli adolescenti quanto quella degli adulti – possa essere dettata da dinamiche impositive: all’estemporaneità del “siamo chi siamo” consegue dunque un andamento narrativo poco lineare, mai deterministico, interessato invece a pedinare la flânerie esistenziale dei personaggi.
Proprio nella necessità di raccontare il tortuoso percorso di scoperta e costruzione dell’identità personale si può intravedere una linea di continuità che lega buona parte della produzione di Guadagnino. Le incertezze connesse alla genesi dell’individualità sono, in effetti, il materiale primario da cui scaturiscono i pur diversissimi esiti narrativi di “Io sono l’amore”, “Chiamami col tuo nome” e perfino di “Suspiria”. In quest’ottica l’estensione del racconto seriale permette, in “We Are Who We Are”, un ampliamento del raggio d’indagine; all’osservazione dell’identità fluida dei due protagonisti si aggiunge infatti la disamina degli innumerevoli dubbi e cambi di direzione di un nutrito gruppo di comprimari, ciascuno di essi attraversato da magmatiche spinte alla ridefinizione di sé. Ogni personaggio è colto in una fase di problematica transizione, a partire dai due giovani protagonisti, caratterizzati da un orientamento sessuale incerto e da rapporti contrastati con i genitori. La sceneggiatura, però, lambisce anche il carico di responsabilità della madre biologica di Fraser, donna omosessuale e appena promossa comandante della base; o, ancora, le tensioni interiori del fratello e del padre di Caitlin, due afroamericani in procinto di modificare la propria identità sociale, convertendosi all’islam il primo, sostenendo fieramente l’elezione di Trump il secondo. Quello che si sviluppa dentro la caserma è quindi un concerto di voci e corpi in perenne collisione con il piccolo mondo in cui si trovano gettati. L’immaginaria base militare costituisce infatti un denso e minuzioso microcosmo, edificato quasi da zero (utilizzando le strutture di una dismessa base aeronautica) e popolato da una comunità molto specifica che tuttavia, nelle mani dei creatori, riesce a farsi veicolo di tensioni e sommovimenti universali.
Centrale, in tal senso, è il lavoro su scenografie e costumi: tanto l’immaginario austero e ritualistico della caserma quanto le spersonalizzanti uniformi dell’esercito svolgono una rilevante funzione narrativa, ponendosi in antitesi formale e concettuale rispetto alle divergenti, libere e talvolta caotiche scelte estetiche di Fraser e Caitlin. I mutevoli look e abbigliamenti dei due protagonisti – curati dalla costumista Giulia Piersanti, fondamentale collaboratrice del regista siciliano dai tempi di “A Bigger Splash” – sono formulazioni figurative delle loro personalità cangianti, ma anche un elemento di disturbo e di sfida all’estetica militaresca. Un conflitto, questo, ben sintetizzato nel corso del sesto episodio tramite un’inattesa sequenza musicale, quasi un videoclip intromessosi nella diegesi. Qui i due protagonisti, vestiti interamente di bianco, ballano interpretando in playback la loro canzone, “Time Will Tell” di Dev Hynes: in primo piano la dimensione sospesa e naïve di Fraser e Caitlin, mentre sullo sfondo, avulsa, la disciplinata quotidianità della base militare.
E proprio la colonna sonora – così importante, significativamente, anche nella già citata “Euphoria” – costituisce l’autentico collante del racconto, contribuendo alla costruzione di una realtà adolescenziale stratificata e credibile. Al connubio di nazionalità e culture interno alla base consegue infatti un commento musicale variegato, che spazia dall’immancabile John Adams (sulle cui composizioni, ormai da anni, Guadagnino è in grado di orchestrare intere sequenze) ai Radiohead, dai CCCP a Frank Ocean. Sulla musica e sul montaggio, ancor prima che sul dialogato, sono incentrate alcune delle sequenze cardine della serie; scene spesso autoconclusive e in qualche misura antinarrative, che si rivelano tuttavia il fulcro emozionale del racconto. La musica, all’interno della caserma, è un infatti un elemento onnipresente che scandisce la quotidianità degli adolescenti e ne traduce in forma sonora le sofferenze inattese, le illusioni, le piccole epifanie: tutte quelle esperienze, insomma, che generano in loro – in opposizione e a causa della realtà della base, che alla guerra deve la sua ragione d’essere – un incessante conflitto, un continuo combattere e mettere in discussione se stessi.
Sebbene non in termini visivi la guerra è, in fondo, una sotterranea costante di “We Are Who We Are”: tanto quella brutalmente reale, lontana ma capacissima di ferire anche all’interno della base, quanto quella interiore, inesausta e accesa nella testa di ciascun personaggio. Se la possibilità di un momento di pacificazione esiste questa risiede, forse, proprio in quei fermo immagine che senza preavviso arrestano il flusso del racconto, estraendo i personaggi dalla contingenza del “qui e ora”.

Giovanni Ceccatelli

23 anni, Firenze, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

Miglior recensione-tweet

Tre piani

Una palazzina. Tre piani. Il primo è eroso dal dubbio, sul secondo aleggia l’ombra della solitudine, e al terzo bisogna giudicare l’impossibile. Ogni famiglia, segregata nella propria casa, comprenderà che bisogna abbattere i muri per essere felici. Non è un film comico.

Marta Esposito

25 anni, Napoli, Università degli Studi Roma Tre

Motivazione

Poche decine di parole per trattenere i diversi percorsi di un film. Il luogo in cui si svolge, come fosse un totale, un establishing shot che apre la sequenza. Quindi la metafora del titolo e i Tre piani che tripartiscono le linee della narrazione e i temi del dubbio, della solitudine e del giudizio. Poi lo spazio della missione che Nanni Moretti affida ai suoi personaggi ed infine la certezza di ciò che il film non vuole essere. Non ci sono slanci interpretativi che potrebbero ingannare o sviare il lettore, ma c’è la consapevolezza di doversi mettere al servizio di un’idea di cinema e di un bisogno di chiarezza che il pubblico chiede sempre di più. Brevità e limpidezza.

Miglior recensione standard

Il collezionista di carte

Un uomo, solo in una stanza, intento a riversare i propri tormenti morali sulle pagine di un diario: una delle immagini più ricorrenti e al contempo maggiormente riassuntive della poetica di Paul Schrader. Un’immagine che inframmezza ritmicamente “Il collezionista di carte”, a scandire l’esistenza di William, uomo dal passato pesantissimo e adesso reinventatosi chirurgico giocatore d’azzardo. William, un Oscar Isaac dallo sguardo torvo e illeggibile, attraversa in silenzio i casinò americani, al tavolo da gioco calcola mentalmente le probabilità di vincita, e vince. Poi, di notte, scrive, tornando ineluttabilmente a una colpa che ha già scontato ma dalla quale non si sente assolto. La regia di Schrader si impernia sulle opposizioni spaziali e formali, dettando un conflitto visivo tra le composizioni monocrome e geometriche delle asettiche stanze di motel abitate da William e l’immaginario kitsch dei casinò, tra neon e cumuli di fiches: da una parte il ricettacolo dell’afflizione, dall’altra, forse, lo spazio dell’agognata redenzione. Poiché la rinascita – ce lo dicono le parabole dei molti antieroi del regista americano – consegue al castigo autoinflitto, all’assunzione di responsabilità, ed è là che Schrader guida il protagonista, rinnovando in termini estetici la propria idea di neo-noir ma tuttavia riaffermandone, con eleganza e perseveranza insieme, la tesi morale di fondo.

Giovanni Ceccatelli

23 anni, Firenze, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

Motivazione

Il testo sa prima di tutto sintetizzare al meglio un intreccio narrativo non semplice, cogliendo nella restituzione della “trama” gli aspetti che maggiormente caratterizzano la figura del protagonista, alcuni puramente simbolici altri più funzionali alle vicende vissute. Infine traccia con precisione il percorso di Paul Schrader nel neo-noir come genere morale, sottolineando l’evoluzione estetica ulteriore rispetto ai film del passato ma anche la coerenza di un discorso poetico unico nel panorama del cinema americano. Tutto questo con osservazioni pertinenti e stile conciso.

Miglior recensione “americana”

United 93

Rivedere oggi un film come United 93 di Paul Greengrass è un’esperienza straniante, a tratti oscena e tremenda, che interroga lo statuto del cinema nei confronti della Storia e spalanca riflessioni sull’etica dello sguardo di fronte alla morte. L’opera racconta le vicende dell’unico aereo fra i quattro dirottati l’11 settembre a non aver raggiunto l’obiettivo degli attentatori. Il volo, in origine diretto contro la Casa Bianca, si schiantò infatti in una radura disabitata della Pennsylvania per via della ribellione dei suoi passeggeri. Nessuno sopravvisse ma il sacrificio di quelle persone divenne presto un simbolo del coraggio dell’Occidente ferito dal terrorismo. È decisivo sottolineare come questa dimensione eroica non rappresenti il centro del film ma sia semmai il suo climax emotivo, la vertiginosa catarsi giunta al termine di una narrazione glaciale, priva di qualsiasi ornamento retorico o indirizzo morale. Raccontare l’11 settembre per Greengrass sembra essere possibile solo a patto di venire meno come autore e farsi testimone, ricostruendo i fatti all’insegna di un realismo a tal punto minuzioso da divenire al contempo faro stilistico e imperativo etico. In questa direzione vanno considerate le scelte di scrivere la sceneggiatura in base alle registrazioni telefoniche e i racconti dei familiari delle vittime, far recitare attori professionisti insieme a persone realmente coinvolte nelle vicende di quel giorno e annullare la descrizione del contesto intorno all’evento in modo da giustificare una costruzione drammaturgica dei tempi e degli spazi tanto minimale quanto opprimente. Attraverso un montaggio alternato fra la cabina dell’aereo e la torre di comando dell’aviazione americana lo spettatore assiste impotente al compiersi della tragedia, seguendone passo dopo passo il terribile accadere, dalla quiete di una mattina come tante alla furiosa colluttazione finale. È in questa cronaca dell’incubo, in questa (im)possibilità collettiva di esorcizzare il trauma che si esaurisce però la spinta di United 93, opera ben realizzata ma che ha il grande difetto di tralasciare fuori di sé il suo senso.
Il reale interesse di un thriller di cui prima del suo inizio è già nota la fine – dal primo minuto sappiamo che l’aereo si schianterà – non può che provenire oltre e malgrado le sue immagini. Per di più, l’eccezionalità dell’11 settembre deriva dal fatto che è stato il primo epocale avvenimento storico a consumarsi in diretta televisiva. Nessun fotogramma potrà mai superare la bellezza e l’orrore di quelle riprese, nessun effetto speciale costruito in studio potrà eguagliare la nefasta meraviglia scaturita dalla riproducibilità tecnica di quelle immagini; la realtà che inghiotte il cinema, l’aereo che squarcia la torre e il vecchio mondo che collassa in fiamme. Ecco allora che il desiderio di Greengrass, ripercorrere con oggettività documentaristica quelle ore, si rivela una superflua, per quanto comprensibile, utopia. Dove risiede la rilevanza cinematografica nel mostrare gli ultimi attimi di vita dei passeggeri a bordo di quell’aereo? Cosa aggiunge al discorso sull’11 settembre la pornografia del loro dolore, la morbosa messa in scena di una realtà che rimarrà per forza di cose sempre degradata a simulacro dell’unica immagine davvero in grado di restituire l’abisso di quella tragedia? Se avessimo potuto seguire alla tv o in streaming una doccia all’interno dei campi nazisti forse nessun film sull’Olocausto sarebbe riuscito a scuoterci e inorridirci tanto quanto quelle ipotetiche immagini. Se la televisione ha mostrato le torri gemelle crollare cosa rimane al cinema e cosa rimane a noi, ormai privati persino del privilegio di immaginare il male? Forse solo uno sguardo che prenda posizione e un racconto che trasfiguri la Storia invece di ricalcarla, così da fornire prospettive alternative, personaggi complessi, conflitti radicali. Tutto ciò che United 93 preferisce non essere, accontentandosi di andare in cerca dell’impossibile.

Andrea Tiradritti

25 anni, Roma, Università degli Studi Roma Tre

Motivazione

Il punto di vista (del tutto opinabile) non deflette mai dalla tesi di fondo: l’opera è impeccabile dal punto di vista della ricostruzione, di un realismo persino eccessivamente minuzioso e di un approccio del tutto anti-retorico, ma non può competere con le terrificanti immagini della diretta televisiva. Sotto il profilo etico, senza scomodare Rivette, la posizione è (fin troppo) radicale, ma ben argomentata. Molto interessante l’analisi del lavoro di Greengrass sulle immagini e sull’assenza di esse, sul genere e sul rapporto col documentario; interessante anche la presa di posizione critica sul valore del film. 

Miglior saggio breve

We Are Who We Are

Un corpo è solo il sintomo di una rivoluzione che è dentro, qui e ora. Nel grigiore di una base militare americana immersa nella provincia veneta, risuona il grido d’esistenza dei protagonisti della nuova miniserie Tv diretta da Luca Guadagnino, We Are Who We Are. Contemplando il mondo oltre la serratura della sua stanza, il regista costruisce un mosaico di sentimenti incastrati in una dimensione eterea, dove il tempo non smette mai di scorrere, dove i corpi si trasformano come materia fluida. Ad impersonare con enorme intensità questo ideale di esistenza è proprio il giovane Fraser Wilson, trasferitosi nella base militare con le sue due madri, Sarah e Maggie, e costretto a calarsi in un microcosmo apparentemente sterile, fino a diventare un mendicante nel corpo dove tutto ha prezzo. Ma proprio qui comincia il viaggio del protagonista verso la conoscenza della propria natura corporea, un percorso di maturazione scandito da inquadrature e piani sequenza che rincorrono il caos delle sue pulsioni più silenziose. Nel mentre, la musica dei suoi auricolari continua a suonare. Lungo la strada per ritrovare se stesso, Fraser incontra la giovane Caitlin, figlia di un militare sostenitore della politica trumpiana, e condivide con lei l’amore per la musica di Blood Orange, il desiderio di esprimere liberamente la propria identità sessuale non-binary. Senti mai che non appartieni a nessun posto? Nel sussurrare questa domanda, i ragazzi rivelano la propria curiosità di conoscere il mondo nelle sue sfumature più vivaci, trasformandosi costantemente, come in un fluido divenire di passioni e istanti eterni. Eppure, ben presto sopraggiunge la morte; ma prima c’è stata la vita, che, nella sequenza della villa, si manifesta in tutta la sua bellezza primordiale. Intanto, i primi piani magnetici della cinepresa sono destinati a scontrarsi con l’orrore della guerra, che non può essere oscurato e continua a mutilare i corpi e le menti di uomini, donne, persone. Eppure, qualcosa sta cambiando; nell’universo di We Are Who We Are è in atto una rivoluzione che oltrepassa i confini del cinema, di cui lo spettatore diviene realmente consapevole soltanto nel momento in cui Caitlin rade il primo ciuffo della sua folta chioma riccia. Quel gesto, condensato in uno slow-motion tecnicamente esemplare, rappresenta il ripudio di una femminilità che ella non è mai riuscita ad accettare. Oltretutto, nel rapporto tra Fraser e sua madre emergono complessi conflitti generazionali che rievocano temi già esplorati da Xavier Dolan nel suo Mommy: i due sono uniti e lontani, e i loro sguardi si rincorrono tra le pareti di una casa in cui persino gli oggetti d’arredo sembrano prendere vita, rendendo la scenografia una colonna portante dell’intero progetto. Ad impersonare con grande empatia l’anormalità dei due protagonisti, Fraser e Caitlin, sono Jordan Kristine Seamón e Jack Dylan Grazer, che, in sintonia con il carattere autenticamente eccentrico della sceneggiatura, decostruiscono ogni genere di stereotipo adolescenziale e raccontano le infinite sfumature dei comportamenti umani. I personaggi di We Are Who We Are sembrano abbandonarsi costantemente all’estetica della sensibilità, ipnotizzati da una cinepresa che indugia e li osserva nello stesso modo in cui osservava i corpi di Elio e Oliver sfiorarsi nelle inquadrature di Chiamami col tuo nome. Eppure, oltre questo velo non si nasconde niente: i corpi restano immersi nell’irrisolto, consapevoli di quanto sia vacua la realtà che hanno costruito intorno a sé. Continuano a camminare, ed entrano in contatto con il mondo senza pretendere di captarne il divenire; vengono da un sacco di posti e non vanno da nessuna parte. A cadenzare il loro flusso di coscienza è il montaggio di Marco Costa, che ritrae i momenti da una molteplicità di prospettive e riesce a rappresentare la natura inanimata come metafora di percezioni puramente umane. Nei silenzi delle inquadrature riecheggia il respiro di Bernardo Bertolucci, il cui cinema rappresenta una materia d’ispirazione eterea, atavica, che continua a vivere in tutti i personaggi creati da Luca Guadagnino e sembra fortificarsi proprio in We Are Who We Are. E poi si sente il pianoforte di Devontè Hynes, meglio noto col nome d’arte Blood Orange, autore della colonna sonora armonizzata con i classici della musica leggera italiana e dell’it-pop, con l’alternative rock dei Radiohead e il rap di Kendrick Lamar. Le musiche, i suoni e i silenzi conducono i personaggi verso un universo sconosciuto, lontano dalla base militare, dove non esistono altro che corpi, persi in tutta la loro sensuale indefinitezza. Con l’enorme contributo artistico di Paolo Giordano e Francesca Manieri, Luca Guadagnino è riuscito a creare una storia necessaria, che in otto episodi si trasforma senza mai perdere la propria coerenza narrativa, anche quando, nelle menti dei personaggi, comincia a riecheggiare un canto di morte. Inaspettatamente, il microcosmo di We Are Who We Are si rivela essere un riflesso dell’inconsistenza in cui sono incastrati gli uomini, consapevoli che soltanto il tempo, un giorno, potrà dire loro la verità. Per adesso non servono altre parole. Time Will Tell.

Valeria Nobile

19 anni, Trentola Ducenta (Caserta),  Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, Facoltà di medicina

Motivazione

Si premiano l’articolazione fluida e ricca dell’analisi, che coinvolge i diversi aspetti della serie fornendo al lettore strumenti per comprenderla e apprezzarla – anche nel caso non l’abbia ancora guardata – scritta in modo chiaro ed efficace, con ricchezza di riferimenti esterni alla serie. 

Targa Enrica Prati

Shiva Baby

Avere vent’anni e non sapere cosa si vuole fare da grandi. Esiste qualcosa di più frustrante? Sì, darne delle spiegazioni, ed Emma Seligman, classe 1995, con il suo “Shiva Baby”, non poteva essere più precisa nel descrivercelo. La giovane e fragile Danielle, interpretata da una superba Rachel Sannot, si destreggia tra fastidiosi convenevoli e domande invadenti di familiari e conoscenti, durante il ricevimento di uno Shiva, il funerale ebraico. La resistenza emotiva della ventenne viene messa a dura prova da una serie di incontri inaspettati: per cominciare l’ex fidanzata Maya, studentessa di legge adorata da ogni adulto nella casa; e poi Max, lo sugar daddy con cui Danielle ha avuto un rapporto (retribuito) poche ore prima della cerimonia, accompagnato dalla ignara e bellissima moglie e dalla figlia in fasce. Le grida della bambina, costanti e moleste, si sovrappongono a una violenta colonna sonora di soli strumenti ad arco, impegnati in pizzicati ticchettanti, tremolii aggressivi e staccati nevrotici, perfettamente in linea con i dialoghi serratissimi e con il moltiplicarsi degli inconvenienti, tutti vissuti nel claustrofobico ambiente della casa in lutto. “Shiva Baby” è il brillante spaccato di una generazione confusa e spaventata dal futuro e l’interessantissimo esordio di una giovane regista sensibile e attenta, che sembra avere ancora tante cose da dire.

Elena Brianzi

22 anni, Piacenza, diplomata al Conservatorio Nicolini, studia all’Università del Sacro Cuore

Motivazione

L’autrice coglie nel particolare del film l’universale di un mondo, un ambiente, una generazione e lo comunica senza psicologismi. Fornisce gli elementi della trama necessari all’analisi ed evidenzia i dettagli funzionali al procedere della narrazione.

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